PHOTO
In limine mortis. Il 30 novembre lo Stato italiano, attraverso la propria Avvocatura, ha risposto ai quesiti della Corte di Strasburgo relativi agli abusi antimafia. Vogliamo essere precisi: la replica riguarda una causa, generata dal ricorso (numero 29614/16) dei fratelli Cavallotti alla Cedu. E ancora più precisamente: lo Stato italiano era stato chiamato dai giudici europei a spiegare, nell’ambito della causa, se la confisca ai danni di Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti fosse compatibile con la presunzione d’innocenza, considerato che quella spoliazione era stata inflitta nonostante i tre imprenditori palermitani fossero stati assolti con formula piena, nel processo penale, dall’accusa di 416 bis.
In limine mortis, si è detto. In due sensi. Primo: il 30 novembre era l’ultimo giorno che lo Stato italiano aveva a disposizione per replicare agli interrogativi rivoltigli, in seguito al ricorso, dal giudice europeo, dopo che l’Avvocatura di Roma aveva chiesto di prorogare il termine iniziale del 13 novembre. Secondo: in limine mortis anche nel senso che la fragilità delle risposte esibite dallo Stato italiano lascia intravedere un esito favorevole ai ricorrenti e, forse, la “morte”, l’inizio delle fine, per un sistema indegno. In virtù dell’eccezionalismo antimafia, quel sistema punisce, con spregio del diritto, le persone innocenti. Forse la possibile vittoria dei Cavallotti nella causa contro lo Stato, la possibile affermazione, da parte della Cedu, del principio per cui i tre fratelli di Belmonte Mezzagno, dichiarati pienamente innocenti nel processo penale, non avrebbero dovuto vedere i loro beni confiscati, travolgerà l’intero abominio delle confische far west. E forse la pronuncia europea interverrà prima ancora che il Parlamento italiano arrivi ad approvare la legge concepita con lo stesso fine – salvare gli innocenti – e messa in calendario a Montecitorio su iniziativa di Forza Italia.
Ma quel che potrà accadere tra qualche mese, quando la Corte di Strasburgo emetterà la propria sentenza sul ricorso Cavallotti, resta ovviamente materia per aruspici. Qui interessa altro. E cioè il modo, le argomentazioni con cui l’Avvocatura dello Stato difende gli abusi dell’Antimafia. Argomentazioni che, come detto, sono fragili. Seppure legato alla necessità di motivare scelte compiute da altri (prima dal legislatore e quindi dai singoli magistrati), il filo logico proposto dall’Italia dinanzi ai giudici europei è al limite della provocazione intellettuale.
Così lo Stato ha difeso gli abusi dell’antimafia
Di fatto, l’Avvocatura dello Stato ha difeso il principio per cui una persona innocente andrebbe spogliata di tutto perché divenuta vittima dell’estorsione mafiosa. Una sorta di scenario da Superfantozzi: i Cavallotti hanno visto i loro beni confiscati (con la decisione resa definitiva dalla Cassazione il 12 novembre 2015, sentenza numero 4305) perché avevano pagato il pizzo a Bernardo Provenzano e al capomandamento di Belmonte Mezzagno. Prima sono stati spremuti da Cosa nostra e poi, in virtù di questo, depredati di ogni cosa dallo Stato. Incredibile.
È incredibile che lo Stato italiano, pur con le argomentazioni sofisticate dei propri avvocati, difenda un principio così abnorme. Forse è un’autodenuncia che prepara il ravvedimento operoso in arrivo con la riforma del Parlamento. Fatto sta che la difesa dei fratelli Cavallotti avrà tempo fino al 18 gennaio prossimo per controdedurre le argomentazioni dell’Avvocatura pubblica. Poi toccherà alla Corte europea dei Diritti umani.
Gli interrogativi rivolti da Strasburgo erano tre. Il primo è decisivo. In sintesi, la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha voluto chiedere all’Italia, prima di emettere la sentenza, se ritenga compatibile con la presunzione d’innocenza una confisca inflitta a persone già precedentemente assolte, per gli stessi fatti, in un processo penale. Ebbene, l’Avvocatura dello Stato ha replicato che sì, la presunzione d’innocenza non è affatto contraddetta, perché le misure di prevenzione, dunque pure le confische ai Cavallotti, non sono inflitte in virtù di un reato, cioè per la sussistenza dell’associazione mafiosa. Derivano piuttosto da quella che nella memoria dell’Avvocatura è qualificata come «appartenenza» o anche «contiguità funzionale». Circostanza che non è reato, non poteva dunque essere oggetto di un processo, e quindi non se ne può essere “innocenti”.
Un dribbling alla Garrincha, o un sofismo alla Protagora, se preferite: in termini più brutali, un artifizio dialettico. Con una sfumatura ai limiti del sadismo: perché quel concetto di «appartenenza», poco più avanti nella memoria dello Stato italiano, si sostanzia in termini di assoggettamento alle prevaricazioni di Cosa nostra, cioè all’imposizione del pizzo mafioso. Nello sviluppo delle memoria, gli avvocati dello Stato ricordano i pizzini di Bernardo Provenzano, le rimembranze di Giovanni Brusca, le testimonianze di Angelo Siino al processo penale che ha visto assolti i Cavallotti: tutti passaggi in cui si invoca la “messa a posto”, cioè la spremitura, delle aziende poi confiscate agli imprenditori palermitani, all’epoca (seconda metà degli anni Novanta) veri leader non solo siciliani nel settore della metanizzazione. In alcun modo l’Avvocatura ha potuto sottoporre alla Corte dei Diritti dell’uomo elementi che attestassero un’appartenenza dei Cavallotti alla mafia, né in termini di «partecipazione» e neppure in quanto strumento con cui i boss realizzavano i loro affari. Semplicemente, emerge l’esazione del pizzo ai danni dei tre fratelli. Non a caso assolti, per gli stessi identici fatti richiamati dall’Avvocatura dello Stato, con formula piena nel processo penale il 4 febbraio 2016.
E qui il (corto) circuito logico dell’Avvocatura prova a chiudersi: la «confisca preventiva», si afferma, non è «punitiva» ma «preventiva e riparatoria». Quindi: sono innocenti, e non potevamo punirli. Perché per lo Stato italiano, privare tre imprenditori dei loro beni, delle loro aziende, financo della casa in cui abitavano, è servito a evitare che la mafia potesse approfittarsi di loro, ma non è una punizione, no, per carità. Ecco il sofisma con cui ci siamo presentati alla Corte dei Diritti umani. Che dovrà decidere se, a furia di giocare con le parole, l’Italia non abbia giocato con la dignità.