IL LIBRO DI UMBERTO APICE

Più di quindici anni di accanimento giudiziario. È il cuore del libro che Umberto Apice ha dedicato a Pier Paolo Pasolini. Apice muove dall’accusa giudiziaria più surreale tra le tante che furono architettate contro lo scrittore- regista: l’imputazione di una tentata rapina a mano armata.

GENNARO GRIMOLIZZI Pier Paolo Pasolini un poeta fatto a pezzi dalla giustizia italiana

«Volete sbranarlo, Pasolini?». Con questa espressione esasperata l’avvocato Francesco Carnelutti volle stigmatizzare l’attacco durissimo al quale fu sottoposto il suo assistito durante il processo di Latina. All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso lo scrittore e regista venne processato per rapina a mano armata. Il 18 novembre 1961 l’intellettuale friulano venne denunciato dal proprietario di una pompa di benzina di San Felice Circeo. Il processo stabilì che Pasolini agì per simulare la sequenza di un suo film e non per rapinare il benzinaio. Il regista venne, comunque, riconosciuto colpevole di minaccia con arma.

Umberto Apice, magistrato ed ex avvocato generale presso la Corte di Cassazione, si sofferma nel suo libro Processo a Pasolini. Un poeta da sbranare ( Zolfo editore, prefazione di Roberto Saviano, pp. 171, euro 16) sui fatti del Circeo e sulla sentenza del Tribunale di Latina. Un lavoro che mantiene alta l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina per due motivi. Per la grande fluidità narrativa e competenza con cui l’autore racconta la vicenda giudiziaria di PPP. Apice ha servito la magistratura per circa cinquant’anni, prima a Milano e poi a Roma. Il secondo motivo si riferisce all’analisi accurata del processo di Latina, che tiene conto degli umori, dei luoghi comuni e della cultura che contraddistingueva l’Italia di sessant’anni fa. Ieri, come oggi, se si viene etichettati, è difficile strapparsi di dosso quanto apposto da santoni del giornalismo e da certi opinionisti rabbiosi. Pier Paolo Pasolini è finito nel tritacarne mediatico, ha svegliato la morbosità di una parte della stampa, intenta ad etichettare e a seminare odio politico. Tutto quello che diceva, scriveva e faceva Pasolini rischiava di travolgere chi gli stava attorno, direttamente o indirettamente. Non venne risparmiato neppure il suo avvocato, il celeberrimo principe del foro Francesco Carnelutti, ritenuto molto vicino al suo assistito tanto che qualcuno, a corto di argomenti, insinuò una relazione con il regista.

«Vita e opere di Pasolini – scrive Roberto Saviano nella prefazione – non è possibile interpretarle l’una senza le altre. E la vita di Pasolini è un processo perenne, continuo, implacabile, sfiancante. È così che si mortifica l’uomo: facendogli vivere una vita da animale braccato. Confesso di non riuscire più a leggere Pasolini con animo sereno, di non riuscire più a vedere i suoi film senza provare rabbia. Di non riuscire nemmeno più a pensare a ciò che ha vissuto mantenendo uno sguardo distaccato. Confesso che la vita di Pasolini mi fa paura, non riesco a pensare che ciò che è accaduto a lui non possa accadere più, perché le vie della persecuzione sono infinite».

Il clima culturale dell’Italia degli anni Sessanta stava facendo dimenticare la tragedia della Seconda guerra mondiale e proiettava il nostro paese in una nuova fase storica non senza contraddizioni. «La decisione di dedicare un libro a Pasolini – dice al Dubbio Umberto Apice -, risale a molti anni fa. La prima edizione è del 2007 e ha richiesto almeno due anni di lavoro preparatorio. Prima ancora di trasferirmi a Roma, nel 1975, avevo cominciato a collaborare con la rivista Nuovi Argomenti, che annoverava firme prestigiose come quelle di Moravia, dello stesso Pasolini e dell’avvocato Carocci. Nonostante questo, pur frequentando la redazione della rivista, non ho mai conosciuto Pasolini. Ho avuto invece l’onore di incontrare Enzo Siciliano e Dario Bellezza».

A contraddistinguere la vita di Pier Paolo Pasolini furono diverse vicende giudiziarie. «All’epoca – commenta Apice - vedevo Pasolini con grande interesse, perché la sua persona univa il binomio letteratura e processi. In Italia nessuno come lui in quegli anni fu al centro di così tanti processi. Forse, assistiamo alla stessa cosa in Francia nell’Ottocento con alcuni letterati. In fondo anche io, fatte le debite differenze, vivevo un binomio simile, non come perseguitato, ma come persona che si barcamenava tra processi e letteratura. Scrivevo e facevo il giudice. Vivevo quotidianamente le realtà giudiziaria. Da qui mi venne l’idea di scrivere su Pasolini. Un giorno, quando ero consigliere di Corte d’appello a Roma, mi capitò qualcosa che aveva attinenza ad un processo subito da lui. Così si rafforzò il mio interesse per questo grande intellettuale. Il processo di Latina fu emblematico e mi incuriosì tanto da indurmi a cercare di capire cosa ci fosse dietro, la verità storica e la verità processuale, e conoscere meglio il personaggio Pasolini in quanto vittima di una persecuzione giudiziaria. Mi sono approcciato senza l’intento di fare una critica al sistema giudiziario. Non era in ballo questo, ma il fatto che si potesse diventare vittima di una persecuzione non per le strutture giudiziarie, ma per altri fattori insiti nella società del tempo».

Il sottotitolo del libro, “Un poeta da sbranare”, prende spunto da una espressione di Carnelutti, pronunciata nel processo di Latina. «Durante il dibattimento – prosegue l’autore - l’avvocato della parte civile, Giorgio Zeppieri, faceva le richieste più assurde al Tribunale con il solo scopo di denigrare e demonizzare Pasolini. Un atteggiamento che alla fine fece sbottare Carnelutti, il quale espresse disappunto e preoccupazione in merito alla volontà di sbranare in quel processo il suo assistito. Non mancarono alcuni articoli, soprattutto sui giornali di estrema destra, come Il Secolo d’Italia e Il Borghese, che crearono una campagna contro il regista. Penso a Gianna Preda, che, parlando di un battibecco tra Carnelutti e Zeppieri, descrisse le diverse simpatie politiche dei due legali, impegnati però a difendere persone che avevano orientamenti opposti ai loro. La difesa della parte civile nel processo insisteva per la perizia psichiatrica da fare a Pasolini. In realtà si trattò di una spia che fece capire come Zeppieri fosse lo specchio di una parte della società che voleva a tutti i costi demonizzare Pasolini».

Nelle pagine di Umberto Apice troviamo, oltre all’accurata descrizione di una vicenda giudiziaria che appassionò milioni di italiani, anche uno spaccato dell’Italia, costretta a fare i conti con le contrapposizioni politiche, ideologiche e con la caccia al colpevole. Una storia destinata a ripetersi nei decenni successivi.