I libri non andrebbero mai imposti, perché si rischia di ottenere l’effetto opposto, quello di farli odiare invece che amare. Ma bisognerebbe trovare il modo, senza essere autoritari, per spingere ogni ragazzo e ogni ragazza italiani, tedeschi, inglesi, americani, asiatici, africani, di qualsiasi parte del mondo a leggere Se questo è un uomo, il libro in cui Primo Levi racconta il campo di sterminio di Auschwitz.

In Italia e nel mondo, non è stato l’unico libro che i sopravvissuti hanno scritto per descrivere l’orrore dello sterminio. Ma il racconto di Primo Levi è il più grande. Perché all’esperienza diretta, al dolore di chi ha visto l’umanità toccare il suo grado zero, si è aggiunta una scrittura cristallina, unica.

Se questo è un uomo non è solo un libro di denuncia, è grande letteratura: un capolavoro assoluto che ci butta, senza retorica, dentro una vicenda terribile che ha segnato la storia dell’umanità.

Auschwitz Il 22 febbraio del 1944 Primo Levi, nato a Torino 25 anni prima, viene deportato nel campo di Auschwitz. Il suo numero è 174.517. Sì, il numero. Perché nei campi di concentramento e di sterminio lo scopo è quello di annientare l’individualità, la singolarità, l’umanità. Le persone diventano numeri al servizio di un progetto folle di distruzione in nome della purezza della razza. Levi, come racconta quando torna a essere un uomo libero, si salva grazie alle sue competenze di chimico e a quel poco di tedesco che ha imparato per i suoi studi scientifici. Il 27 gennaio del 1945 arriva l’Armata rossa, liberando i prigionieri. Nel romanzo La tregua, che poi diventa anche un bel film di Francesco Rosi con John Turturro nei panni di Levi, si racconta l’odissea del ritorno, di questi sopravvissuti a cui spetta il dovere della testimonianza, della denuncia e del ricordo. Ma non sarà facile.

Se questo è un uomo all’inizio viene rifiutato dalle grandi case editrici, compresa Einaudi, ed esce dopo il 1947 per i tipi del piccolo editore De Silva. 2500 copie stampate, vendute solo 1500. L’Italia, il mondo, non vogliono ricordare, non vogliono sapere. Si rifiutano inizialmente di fare conti con quanto è accaduto, con gli 8 milioni di ebrei, rom, omosessuali, disabili sterminati nei forni crematoi. Ma Levi non si scoraggia. Va avanti. Negli anni 50 l’interesse per ciò che è accaduto aumenta. Lo scrittore torinese va in giro a raccontare, incontra studenti, spiega loro quello che ha vissuto. Nel 1959 Einaudi ristampa il libro e diventa un best seller. L’indicibile diventa patrimonio comune, si fa storia, letteratura. Diventa un monito, quasi una maledizione nei confronti di chi non sarà in grado di ricordare.

Il chimico Quattordici anni dopo la stesura di Se questo è un uomo, Levi scrive appunto La Tregua, con cui nel 1963 vince il premio Campiello. L’attività di scrittore diventa per lui preponderante e con Il sistema periodico si diletta nell’associare ogni racconto a un elemento chimico. Ma è tutta la sua attività di scrittura che trae ispirazione dalla formazione scientifica. Lui stesso dirà che la sua «è l’opera di un chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s'industria di rispondere ai perché». I perché sono tanti. Lui li mette in fila. Li racconta, a partire dalla carne viva della sua esperienza. Nell’introduzione di Se questo è un uomo esplica il senso della sua testimonianza: «... questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ” ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager».

I sommersi e i ... Nel 1982 pubblica Se non ora, quando? sulla seconda guerra mondiale e sulla Resistenza, nel 1986 esce invece il saggio I sommersi e i salvati, tra i suoi libri più belli. Levi torna sui campi di sterminio raccontando la “zona grigia”, coloro che pur costretti nei campi collaborano con gli aguzzini. Non giudica, cerca di capire. Ancora una volta sonda l’animo umano e analizza quanto sia difficile il ricordo, la cura della memoria. Tutta la sua opera è attraversata da questa interrogazione co- stante: come conservare la memoria di ciò che è stato, come fare che non accada mai più. La domanda che si traduce in un obbligo morale, non prende però mai la scorciatoia del moralismo o della banalizzazione. La Storia incombe con il suo peso di verità e di perché. Nei decenni successivi I sommersi e i salvati resta una sorta di guida del dibattito su come si debba raccontare la Shoah. Se ne discute quando esce nelle sale La vita è bella di Roberto Benigni, vincitore dell’Oscar come miglior film straniero nel 1999. Il film racconta l’antisemitismo del nazifascismo e i campi di sterminio, ma finisce con la salvezza dei protagonisti come in un sogno, in una favola. Ci si chiede: si può trasformare lo sterminio in favola, costruire una via di fuga rispetto all’orrore dei forni crematoi. Molti allora, rileggendo le pagine di Levi, restano convinti che non sia possibile. Per lui la memoria è dolore, è un atto di volontà, è una presa di posizione rispetto alla vita.

Shoa o olocausto Il film di Benigni è arrivato a milioni di persone e forse si sbaglia a volerlo criticare per la sua versione edulcorata. Ma quando si parla dei campi di sterminio il rigore non è mai troppo. Anche rispetto ai nomi che si danno alle cose. Per esempio si usano spesso senza distinzione i termini Shoah e Olocausto, quest’ultimo giustamente criticato dagli ebrei. Olocausto significa infatti sacrificio. Ma non ci fu nessun sacrificio, ci fu lo stermino di milioni di persone solo perché considerate “diverse”. Come scrive Levi nell’introduzione a Se questo è un uomo, quando la convinzione che ogni straniero è nemico si fissa nelle coscienze, alla fine della catena c’è il lager.

Levi muore nella sua Torino nel 1987, candendo dalla tromba delle scale. Secondo alcuni fu suicidio.