La prescrizione torna al centro del dibattito giudiziario. Con un’ordinanza, la Corte d’appello di Lecce ha deciso di sospendere il processo a carico di un imputato e di rivolgersi direttamente alla Corte costituzionale. In discussione non c’è solo il destino del singolo procedimento, ma un nodo che riguarda centinaia di fascicoli in tutta Italia: la sorte dei reati presuntivamente commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019, gli anni della cosiddetta “legge Orlando”.

Il caso riguarda un imputato accusato per fatti contestati nell’agosto 2017. La difesa dell’imputato aveva chiesto l’assoluzione, ma in subordine aveva invocato la prescrizione, che a conti fatti sarebbe maturata a febbraio 2025.

La Corte d’appello ha però ricordato che le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza “Polichetti” del giugno 2025, hanno stabilito che in quel triennio si applica ancora la sospensione della prescrizione introdotta nel 2017: un anno e mezzo “congelato” dopo la sentenza di primo grado. Questo sposterebbe, secondo i giudici, la scadenza al 2026.

Eppure il collegio di merito ha scelto di non limitarsi ad applicare il precedente. La Corte d’appello di Lecce ha rilevato che proprio questa interpretazione rischia di scontrarsi con i principi della Costituzione. Per i giudici, mantenere in vita per via giurisprudenziale la sospensione Orlando solo per i reati commessi tra il 2017 e il 2019 significherebbe creare un regime transitorio mai previsto dal legislatore, e per di più peggiorativo per l’imputato.

Per capire il nodo occorre ripercorrere le riforme sulla prescrizione. Nel 2017 la legge Orlando aveva introdotto una novità: dopo la sentenza di primo o secondo grado, la prescrizione restava sospesa. Una misura che voleva impedire che reati gravi si estinguessero durante i tempi lunghi dell’appello o della Cassazione. Nel 2019 la legge Bonafede aveva irrigidito ulteriormente il sistema, prevedendo una sospensione praticamente “senza scadenza”, ma rinviandone l’entrata in vigore al 1° gennaio 2020. Infine, nel 2021, la riforma Cartabia ha cancellato quel meccanismo, introducendo al suo posto due nuovi istituti: la “cessazione” della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (articolo 161- bis del codice penale) e l’“improcedibilità” se il processo d’appello o di Cassazione supera termini massimi prefissati (articolo 344- bis del codice di procedura penale). Secondo la Cassazione, le norme Bonafede e Cartabia valgono solo per i reati dal 2020 in avanti. Di conseguenza, i reati commessi nel triennio 2017-2019 resterebbero agganciati alla sospensione Orlando.

Ma la Corte d’appello non è d’accordo con questo principio: se il legislatore ha abrogato quella sospensione, essa non può rivivere per via interpretativa, tanto più se comporta un effetto in malam partem, cioè sfavorevole all’imputato. Il punto, sottolineano i giudici, non è soltanto tecnico. È un problema di legalità e di ragionevolezza.

La legge penale, per Costituzione, non può essere applicata oltre i suoi limiti letterali e non può punire di più senza una base normativa chiara. «È il testo della legge, e non l’interpretazione successiva, che deve avvertire i cittadini sulle conseguenze delle proprie condotte», ricorda l’ordinanza citando la giurisprudenza costituzionale. Ora la parola passa alla Consulta. Se accoglierà la questione, per i reati commessi tra il 2017 e il 2019 la prescrizione continuerà a scorrere senza sospensioni automatiche dopo la sentenza di primo grado, come accadeva con la vecchia legge Cirielli. In caso contrario, resterà valido l’orientamento delle Sezioni Unite, con l’effetto di allungare i tempi di estinzione di quei procedimenti.

La vicenda dell’imputato passa così in secondo piano. La Corte costituzionale sarà chiamata quindi a decidere se la “sospensione Orlando” sia definitivamente archiviata o se, nonostante le abrogazioni formali, debba sopravvivere ancora per quel breve ma cruciale periodo.

Una scelta che, a quanto pare, potrebbe incidere non solo sui singoli processi, ma sull’intero equilibrio tra esigenze di giustizia e garanzie dell’imputato.