Quando Fabio Pinelli, vicepresidente del Csm, prende il posto sul palco davanti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il pensiero non può che andare alla conferenza stampa di giovedì scorso. Quando le sue parole sono diventate un caso nazionale, dati i giudizi sul precedente Csm e, indirettamente, sul Capo dello Stato, che dell’organo è presidente ed elemento di continuità tra le due consiliature.

Così Pinelli prova a ribadire il concetto - ovvero quali siano i compiti di Palazzo dei Marescialli -, questa volta senza accuse e senza attribuzione di responsabilità. Anzi, di fatto stabilendo una sorta di continuità tra il passato e il presente: «Il Consiglio superiore della magistratura, sotto la guida autorevole del signor Presidente della Repubblica, ha dato, sta dando e darà il contributo che la Costituzione gli ha assegnato - spiega -, essere organo di governo di una funzione, a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, nell’interesse esclusivo dei cittadini. Questo, come è noto, fu il pensiero dei Padri Costituenti e questo è il binario che dobbiamo percorrere».

Insomma, niente più riferimenti al «deragliamento» che aveva fatto diventare la vecchia consiliatura, a suo dire, una sorta di «terza Camera». Tutto è perdonato. Pinelli prova a disegnare la figura ideale di magistrato, che «trova il proprio riconoscimento giuridico e sociale nella modalità con cui esercita la propria funzione e, conseguentemente, nel rapporto di fiducia che si instaura con i cittadini». Un rapporto che nasce «dal rigore con il quale il magistrato esercita la funzione», dai suoi «comportamenti», dentro e fuori l’esercizio della funzione. «I comportamenti dell’un magistrato incidono sul riconoscimento sociale dell’altro magistrato», aggiunge, una sorta di responsabilità collettiva sulla quale è compito del Csm vigilare, dato il suo ruolo «centrale» anche dal punto di vista deontologico: «Proporre un “modello” di magistrato, autonomo e indipendente, calato nella logica dell’efficiente organizzazione degli uffici giudiziari», questa l’idea di Pinelli.

La componente laica, invece, funge da ponte con la collettività, con quella rappresentanza politica di cui è espressione, «scongiurando chiusure corporative e visioni settoriali dei problemi». Insomma, un collegamento con quella politica dalla quale, comunque, il magistrato deve tenersi ben lontano. «La legittimazione della funzione – spiega poi – non risiede nell’attribuzione formale di essa, bensì nella rispondenza della funzione alle aspettative collettive». Quindi no alle risposte burocratiche: il magistrato deve essere «sensibile alle ricadute della vicenda giudiziaria sulla vita delle persone, conscio del valore della puntualità della risposta giudiziaria». Uniformità dell’esercizio dell’azione penale e prevedibilità delle decisioni sono due capisaldi, ma le toghe devono muoversi «in una cornice di cultura del dubbio e di centralità del principio di presunzione di innocenza», tratti inderogabili «di una deontologia ancorata all’etica dei doveri, dove autonomia e indipendenza, valori non negoziabili, sono garanzie apprestate in funzione dei diritti dei cittadini, non un privilegio di categoria».