Giovanni Toti non si ricandida al terzo mandato di governatore della Regione Liguria. E Andrea Orlando è già pronto. Anche se non ha in tasca (per ora) la candidatura. Morde il freno, ed è normale. Chi se non lui, nato e residente a La Spezia, proprio la città dove ha avuto origine l’inchiesta giudiziaria che ha tagliuzzato le ali all’attuale presidente fino a costringerlo alla rinuncia? Naturalmente, nella lunga intervista alle pagine genovesi di Repubblica, da politico di lungo corso, un “professionista” lo avrebbe definito Berlusconi, si attiene al copione del finto garantista sempre più in auge tra i giustizialisti del Pd. E sentenzia come la stagione del governo Toti sia finita «…al di là della vicenda giudiziaria».

Salvo infilarsi con le scarpe nel tranello della contraddizione che non lo qualifica certo come cultore dello Stato di diritto. Quando tiene a sottolineare «…ciò che l’inchiesta sta evidenziando: chiedevano voti a persone i cui voti non si dovrebbero prendere». Una frase apparentemente incomprensibile, se non a chi conosce le carte dell’inchiesta. Perché il riferimento è alla parte più fragile delle indagini, quelle che, occupandosi apparentemente di un gruppetto di siciliani cui forse è stata fatta qualche piccola promessa non mantenuta in cambio di voti, ha consentito la contestazione del reato di mafia destinato a cadere molto presto nel cestino dl dimenticatoio. Contestazione che ha consentito agli inquirenti di La Spezia e in seguito di Genova di applicare la normativa speciale antimafia con le sue regole e con poche garanzie. Stupisce un po’ che colui che è stato due volte ministro di giustizia sia così poco attento. Distratto da qualcosa di più grande, sicuramente. E con qualche frustrazione nel suo bagaglio politico personale. Un sorriso amaro, quando ammette che «quando le probabilità di vincere erano basse, erano tutti molto convinti della candidatura di Orlando, ora invece già molto meno». Il che lascia però intendere che la sinistra sia già convinta di vincerle, queste prossime elezioni. Ma non tiene in conto due elementi. Il primo è che comunque Giovanni Toti non si è dimesso. Ha solo annunciato di rinunciare al terzo mandato, ma non ha fissato date, e la scadenza naturale della Regione è alla fine del 2025, tra un anno e mezzo. Un tempo lunghissimo, nella politica delle cose italiane. E inoltre, qualunque sarà la decisione del tribunale del riesame sulla prosecuzione o meno della custodia cautelare di Toti, esistono altri strumenti processuali, prima di considerare il ruolo del governatore morto e seppellito. La cassazione, prima di tutto, che ha il vantaggio di essere fisicamente lontana dalla Liguria e i cui giudici hanno la possibilità di maggiore freddezza rispetto ai colleghi liguri. C’è poi la possibilità di un ricorso alla Consulta, come ha lasciato intendere nella sua memoria che ieri l’avvocato Stefano Savi ha depositato al tribunale, un presidente emerito come Sabino Cassese. Che è insospettabile anche perché non è certo un uomo legato al centrodestra.

Ma c’è anche un altro elemento da non sottovalutare, e lo stesso Orlando, che è in politica da quando era ragazzino e che è entrato nel consiglio comunale della sua città a soli vent’anni, lo ha già capito. Magari non l’avrebbe detto, nell’intervista, ma il giornalista glielo fa notare. Perché dopo «lo scandalo giudiziario», «non c’è stata tutta l’indignazione che ci si aspettava». E già, l’elettorato. E qualche sondaggio che già gira, che indicherebbe una tendenza dei cittadini, non solo liguri, che da qualche tempo mostrano scarsa fiducia in chi amministra la giustizia. Anche i lettori dei giornali più schierati con le tesi della procura, come per esempio Il Secolo XIX che sta facendo una vera campagna colpevolistica, hanno capito qualcosa di molto concreto. E cioè che a Toti il malloppo, i piccioli per dirla alla siciliana, non sono stati trovati. Perché i versamenti alla sua lista elettorale erano regolari e legali. Quindi perché non votare ancora per il governatore in carica, quando sarà il momento? Perché per ora non c’è aria di elezioni anticipate, né i partiti che sostengono la giunta regionale ne hanno finora fatto cenno.

Orlando sa bene che nessun moto di popolo si è mostrato in favore dell’inchiesta. E, se pure dichiara di non volere «i forconi sotto la casa di Toti», invoca però una reazione «larga e popolare» per «rigenerare una democrazia malata». E qui di nuovo, si sarebbe detto una volta, casca l’asino. E Orlando si arruola in quella visione, tipica di una certa sinistra, che si sente sempre minacciata dai barbari alle porte per non accettare l’esistenza di forza politiche che la pensano diversamente da quella cui lui appartiene. Dovrebbe essere più cauto, e ricordare che quando si è buttato a corpo morto in un tuffo senza rete come nel 2017 quando sfidò Matteo Renzi sulla premiership del partito, gli andò proprio maluccio. Incauto. E certamente ancora oggi non gli giova, mentre a sinistra si stanno facendo prove di campo largo e di valorizzazione del pensiero liberale, proporre come centro del futuro programma della sinistra quello della “re-industrializzazione”. Dimenticando che stiamo parlando di quell’ impresa assistita ligure degli anni settanta e di programma keynesiano che i dirigenti del suo partito vogliono a tutti i costi far dimenticare. E i cittadini della Liguria con loro.