Le intenzioni sono di sicuro le migliori (anche perché vi sono situazioni patologiche sulle quali è bene intervenire). E non si discute sull’impegno che ci mette la Corte dei Conti per l’Emilia Romagna, sezione Controllo. Se però, guardando le cose da fuori, tutto appare squilibrato, allora è da chiedersi se le intenzioni e l’impegno vadano nella direzione giusta, o se non si stia perdendo il contatto con la realtà.

La storia è quella del Comune di Parma, che a gennaio di quest’anno ha chiesto a un legale esterno un parere pro veritate sulla valutazione giuridica di un’operazione societaria: un aumento di capitale di una società partecipata in vista del conferimento di un ramo d’azienda di altro socio. Un incarico rilevante e di importo consistente – 19.000 euro – nel panorama mediamente molto modesto di quelli conferiti dalle amministrazioni. Un incarico attribuito d’urgenza senza procedura comparativa.

Da qui, una lunga serie di richieste di chiarimenti e documenti, di riscontri e supplementi istruttori. Ne danno conto le fitte pagine della delibera 1.8.2023 n. 111 della sezione Controllo della Corte dei Conti emiliana.

C’è dentro un po’ tutto: la rivendicazione del proprio potere di controllo sugli atti, ma prima ancora sui regolamenti degli enti locali; la prospettiva “non più statica ma dinamica” del confronto tra fattispecie e parametro normativo; il richiamo alle proprie “linee guida”, con le quali “si è inteso fornire alle pubbliche amministrazioni una rilettura complessiva della disciplina in argomento”. C’è l’affermazione che quell’incarico è senza dubbio riconducibile alle consulenze di cui all’art. 7, co. 6, del Testo unico del pubblico impiego (D.Lgs. 165/2001); ciò che impone il rispetto di una serie di prescrizioni che, appunto, la giurisprudenza contabile ha definito.

Su tutto, il principio dell’autosufficienza, per cui – in ragione del necessario contenimento dei costi – le amministrazioni devono svolgere le loro funzioni con il proprio personale. Non importa che il Comune di Parma avesse un ufficio legale interno con due avvocati privi di una formazione specifica nelle tematiche societarie: dato che detiene un certo numero di partecipazioni societarie, l’esigenza di avvalersi di competenze specifiche sulle vicende societarie non è eccezionale e quindi non giustifica incarichi di consulenza.

Inoltre non c’è stata una procedura comparativa tra più curricula, e neppure la richiesta all’Ordine forense di nominativi di avvocati specializzati in ambito societario. Una comparazione la si poteva invece fare, lo dice la stessa giurisprudenza della sezione (ipse dixit): “L’ente non è in assoluto esente qualora l’incarico abbia ad oggetto una prestazione artistica”; figuriamoci una legale. La conclusione è sulla stessa linea, con la trasmissione degli atti alla Procura della Corte dei conti per le valutazioni di competenza.

Qualche considerazione è però inevitabile.

Per prima cosa, la disciplina dell’articolo 7 del decreto legislativo 165 non riguarda gli incarichi legali (a pensarlo pare rimasta solo la giurisprudenza contabile). La logica di quella norma è di evitare forme di lavoro parasubordinato: insomma, è una norma generale sul lavoro nelle Pa, e non si comprende perché debba prevalere sulla disciplina specifica degli incarichi legali.

Ma quella norma consente un maggior spazio di intervento alla Corte dei Conti, dal controllo dei regolamenti alla verifica dei presupposti. Insomma, l’individuazione della norma applicabile non è estranea alle posizioni di potere.

È ovvio che le Corti dei Conti, che siano le sezioni giurisdizionali o quelle di controllo, non possono produrre le norme che poi pretendono di vedere applicate. Ma la loro opera interpretativa – ad esempio, con la valorizzazione della norma generale sugli incarichi di consulenza delle Pa – può portare a un risultato analogo. Tanto più se essa si accompagni all’emanazione di “linee guida”, che creano zone sottoposte a discipline diversificate nell’ambito del territorio nazionale.

Va detto con chiarezza: è sbagliato che una sezione regionale della Corte dei Conti fornisca agli enti controllati una “rilettura complessiva” della disciplina da applicare, affermando di dover rispondere all’esigenza di un “costante raffronto interpretativo con il panorama normativo e giurisprudenziale”. Così infatti si viola la separazione dei poteri. E non si dica che ciò serve agli enti controllati: è difficile credere che le prescrizioni dettate dall’autorità di controllo nei loro confronti si pongano “in un’ottica collaborativa”, quando ciò che ne consegue è la denuncia alla Procura della Corte dei Conti.

Sotto altro profilo: il controllo così effettuato è pervasivo ma superficiale. È un controllo sull’affidamento di un parere, ma in cui non rilevano i contenuti di quel parere. Eppure sarebbe fondamentale capire se quel parere abbia avuto o no un effetto positivo per l’amministrazione in una vicenda di così grande rilievo. Detto in altri termini: si rischia di non cogliere l’essenziale, e magari di bloccare tutto per niente. E l’effetto sulle amministrazioni controllate può essere anche peggiore: quello di creare dei virtuosi delle formalità burocratiche.

E poi l’attività svolta dal legale esterno ha un carattere certamente non ordinario. In particolare, si tratta qui di un parere legale pro veritate (ciò che la Corte non considera in alcun modo). Un parere legale pro veritate è impegnativo per chi lo rende: vi investe la sua credibilità, deve essere estraneo agli interessi in gioco, svolgere un’analisi imparziale e oggettiva, esaminare tutti gli argomenti, favorevoli e contrari. Un parere del genere, prima di rispondere all’interesse del cliente, risponde all’interesse superiore della verità. E, se viene reso a un’amministrazione pubblica, è per sua natura connesso all’esercizio di pubblici poteri. Nulla a che vedere con la copertura “esterna” di esigenze cui non basta il personale in servizio; e l’individuazione del legale cui chiedere un parere del genere – mettendolo integralmente a conoscenza di vicende e scelte spesso delicate – comporta valutazioni che non rendono affatto semplice una comparazione.

Non cogliere tutto ciò significa non comprendere la natura dell’attività legale che viene in gioco. Ma, appunto, alla Corte dei Conti non interessa neppure che sia un’attività legale: ciò che importa, nella sua impostazione, è che sia un incarico di consulenza, non conta su che cosa.

E si arriva così a un’ultima considerazione, di carattere ordinamentale. Il compito di una sezione della Corte dei Conti – di un’autorità pubblica – non può essere quello di presidiare il proprio spazio di potere. Né di chiudersi come un fortino (che è quanto qui avviene: tutti i riferimenti giurisprudenziali sono alla giurisprudenza della Corte dei Conti, e i riferimenti normativi sono spesso autoreferenziali, cioè ad atti di propria produzione).

A che serve tutto ciò? E come può un Comune muoversi nel mondo delle società commerciali – e, più in generale, svolgere in tempo reale le proprie funzioni – se anche solo chiedere un parere legale pro veritate crea tutte queste complicazioni?