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Caos dopo la lettura della sentenza: insulti e minacce nei confronti della famiglia dell’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce: «Vergogna, assassini »
Franco Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco sono stati assolti per insufficienza di prove dalla Corte d’Assise di Cassino per l’omicidio di Serena Mollicone, la studentessa di Arce assassinata il 1 giugno del 2001. La pm Maria Beatrice Siravo aveva chiesto 30 anni di reclusione per l'ex maresciallo Franco Mottola, all'epoca dei fatti comandante della stazione di Arce, in provincia di Frosinone, 24 anni per il figlio Marco, 21 anni per la moglie Anna Maria, tutti accusati di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Chiesti, inoltre, 15 anni per il luogotenente Vincenzo Quatrale, accusato di concorso in omicidio volontario e istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzzi, e 4 anni per l’appuntato scelto Francesco Suprano, accusato di favoreggiamento personale in omicidio volontario. «Questa Procura prende atto della decisione che la Corte di Assise nella sua libertà di determinazione ha scelto. È stato offerto tutto il materiale probatorio che in questi anni tra tante difficoltà è stato raccolto. La procura di Cassino non poteva fare di più. Esamineremo le motivazioni, siamo pronti al ricorso», ha commentato l’ufficio giudiziario dopo la lettura della sentenza. Dopo l’assoluzione, in aula si è sentito urlare «vergogna, assassini», insulti che sono stati ripetuti anche fuori dal tribunale e rivolti alla famiglia Mottola, vittima di un tentativo di aggressione da parte di alcune persone inferocite in piazza. Le forze dell’ordine sono state dunque costrette a circondare i tre con un cordone di uomini allontanando la folla. Presenti in aula anche il padre e la madre di Marco Vannini, «un atto dovuto nei confronti di un padre coraggio - hanno dichiarato i genitori del 19enne ucciso nel 2015 da un colpo di pistola mentre era a Ladispoli in casa Ciontoli -. Noi oggi rappresentiamo Guglielmo, un padre coraggio». «Ho rivissuto la tragedia di mio figlio - ha poi aggiunto Marina Vannini -, Marco era nella casa dove doveva essere protetto. Serena era in una caserma dove doveva essere protetta anche lei. E invece non è stato così».
Il padre di Serena, Guglielmo Mollicone - morto poco prima del rinvio a giudizio degli imputati - ha sempre sostenuto la tesi secondo cui Serena è entrata viva nella caserma dei Carabinieri di Arce. Era il primo giugno del 2001 quando la ragazza si presentò lì, probabilmente, per incontrare Marco Mottola, suo coetaneo e figlio dell’allora comandante. Una volta all’interno, secondo quanto ricostruito dalle indagini dei Ris e dagli accertamenti dell’Istituto di Medicina Legale di Milano dove il corpo della ragazza, una volta riesumato, è stato studiato per oltre un anno e mezzo, i due ragazzi avrebbero litigato. Mottola avrebbe così tirato uno schiaffo alla ragazza, facendo sbattere violentemente la parte occipitale della testa di Serena contro una porta. La ragazza sarebbe crollata a terra priva di sensi e con una perdita di sangue dall’orecchio. A quel punto, secondo la tesi accusatoria, sarebbero intervenuti il maresciallo e la moglie. Il corpo di Serena sarebbe stato spostato su un terrazzino coperto e lontano da occhi indiscreti, dove sulla testa della ragazza sarebbe stato infilato un sacchetto poi sigillato con del nastro adesivo. Serena, in quel momento, era ancora viva: la morte sarebbe sopraggiunta sei ore dopo, come confermato dall’autopsia, per soffocamento. A convincere la procura di tale tesi, oltre alla rivisitazione approfondita e sistematica di tutti gli atti procedimentali, la riesumazione del cadavere e l’applicazione di tecniche all’avanguardia, anche la perfetta compatibilità tra le lesioni riportate dalla vittima e la rottura di una porta collocata in caserma; così come è stata accertata la perfetta compatibilità tra i microframmenti rinvenuti sul nastro adesivo che avvolgeva il capo della vittima ed il legno della porta. Il processo era arrivato dopo diciotto anni di depistaggi e richieste di archiviazione per un’indagine che sembrava essere finita in un cassetto dopo l’assoluzione con formula piena nel giugno del 2006 del povero Carmine Belli, carrozziere di Rocca d’Arce, arrestato nel 2004 con l’accusa di aver assassinato la giovane e che per 18 lunghi mesi è rimasto in cella di isolamento gridando la propria innocenza. Belli fu vittima di uno dei tanti depistaggi che, secondo la procura, furono attuati dai veri responsabili dell’omicidio di Serena Mollicone. Le indagini ripresero nel 2006, per arrivare ad una svolta nel 2008, quando Tuzi, all’epoca dell’omicidio in servizio presso la caserma dei carabinieri di Arce, si tolse la vita. Il sottufficiale pochi giorni prima di spararsi un colpo di pistola al petto raccontò ai superiori e al magistrato dell’epoca, Maria Perna, di aver visto la ragazza entrare nella caserma dei carabinieri di Arce il 1 giugno del 2001 e di non averla più vista uscire. L’accanimento investigativo subito lo portò alla disperazione e al suicidio. Nel 2011 a tre anni da questa ulteriore tragedia, la procura di Cassino chiese l’archiviazione delle cinque persone indagate per insufficienza di prove. La famiglia Mollicone presentò opposizione alla richiesta di archiviazione, che fu accolta dal gip del tribunale di Cassino, Angelo Valerio Lanna, che rinviò gli atti alla procura chiedendo ulteriori approfondimenti investigativi e scientifici.