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piersanti mattarella
Sono passati 43 anni dall’omicidio “politico – mafioso” dell’ex presidente della regione sicialiana Piersanti Mattarella. Il presidente del tribunale di Palermo, il giudice Antonio Balsamo, ha proposto l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta per fare luce “su tutti quegli aspetti ancora oscuri sulla nostra storia recente". Balsamo parla giustamente del “diritto alla verità” ed è indubbiamente una necessità per la collettività. Nel contempo, però, ci si augura che tale diritto non venga intossicato da ricostruzioni ampiamente smentite. In questi ultimi anni, le commissioni di inchiesta, organismo politico, sembrano più propense a ricostruzioni suggestive che a un attento studio degli elementi oggettivi. Troppi anni sono stati persi, come ad esempio le recenti inchieste fallimentari della scorsa procura di Palermo che aveva riesumato la pista nera degli ex Nar. E infatti, dopo più di 40 anni, finalmente si punta al sicario mafioso rimasto ancora senza nome.
Un nome in realtà era già emerso. Sull’omicidio di Piersanti Mattarella già la Corte d'Assise d'Appello aveva evidenziato, nel 1998, nel decidere il processo sugli omicidi politici, la somiglianza fisica tra Nino Madonia e Giusva Fioravanti, oltre al dato - sottolineato da diversi pentiti - relativo alla assoluta incredibilità dello scambio di favori tra mafia e neri dato che i killer e i "soldati" pronti a sparare a Cosa nostra di certo non mancavano. E infatti i delitti eccellenti, presentano esattamente lo stesso modus operandi. In maniera suggestiva si era parlato della pistola calibro 38 e la targa falsificata con due spezzoni di diverse targhe. Si era detto che anche i Nar usavano la stessa tipologia di arma e che la targa falsificata era un metodo anomalo per la mafia.
Come Il Dubbio già sviscerò, abbiamo l’esempio dell’omicidio del giornalista Mario Francese, considerato tra i primi delitti eccellenti mafiosi, che fu ucciso il 26 gennaio del ’79. Dagli atti emerge che l’unico proiettile repertato proveniva da un revolver calibro 38 special, del tipo Smith & Wesson. Stesso tipo di arma che avrebbe ucciso due mesi dopo il segretario provinciale della Democrazia cristiana, Michele Reina e un anno dopo l’ex presidente della Regione Piersanti Mattarella. Ma non solo. Altra analogia con il delitto eccellente è l’utilizzo del veicolo per commettere l’efferato omicidio: la targa era stata sostituita con un’altra formata da due spezzoni di diverse targhe.
Che il delitto Mattarella meriti ancora un approfondimento è indubbio. Usando la stessa definizione di Giovanni Falcone, parliamo di un “omicidio politico- mafioso” che ha avuto una sua peculiarità rispetto agli altri delitti eccellenti. Quale? Ci viene in aiuto Falcone stesso. Ma attenzione. Non con le sue parole evidenziate dalle motivazioni della sentenza di condanna dell’ex Nar Gilberto Cavallini avvenuta nel 2020. Non entriamo nel merito delle motivazioni del giudice Michele Leoni, ma nella parte relativa a Falcone sull’omicidio Mattarella, è stata riportata una sua audizione della seduta della commissione parlamentare Antimafia che risale al 3 novembre 1988. Viene quasi data l’idea che sia un suo testamento. No, non è vero. Era appena agli inizi delle indagini. Dopo aver vagliato tutto, è giunto ad altre conclusioni. È vero che nel 1988, innanzi alla commissione parlamentare, Falcone disse che «si trattava di capire se e in quale misura “la pista nera” sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani». Ma all’epoca ancora non aveva una idea chiara. Infatti, da persona seria e professionale, merce rara oggi, usò il condizionale.
Due anni dopo Falcone disse ben altro. Il Dubbio, lo scorso anno, segnalò l’esistenza di una sua audizione del 1990 in commissione Antimafia dove parla di due questioni: l’omicidio Mattarella e le indagini dei Ros su mafia-appalti. L’ex presidente della commissione Nicola Morra accolse la segnalazione e desecretò il documento. Le parole più recenti di Falcone sulla questione Mattarella, quindi, non sono quelle del 1988, ma quelle di due anni dopo. A quale conclusione giunse fino a quel momento? Una saldatura tra neri e mafiosi? Parlò di strategia della tensione, P2 o Gladio? No. Era ancora convinto che i killer fossero i neri, ma dette un’altra spiegazione sul perché la mafia sarebbe ricorsa a persone esterne. «Il 1980 – spiegò Falcone – ha rappresentato il momento più acuto di quella crisi che sarebbe poi sfociata nella guerra di mafia: da un lato vi erano Bontade e Inzerillo (Badalamenti era stato già buttato fuori da Cosa nostra) mentre dall’altro vi erano i corleonesi». Importante questo punto, perché nel momento della crisi «ognuno aveva paura di fare il primo passo». C’era una parte della mafia che voleva ucciderlo, l’altra era indifferente. Ma allora perché una parte della mafia decise di eliminare Piersanti Mattarella, ma senza avvisare gli altri? «Bisognava indicare le ragioni per cui si uccideva una persona, quale fatto in concreto si contesta a Mattarella, quale persona del mondo politico aveva chiesto di ammazzarlo!», rispose Falcone.
La spiegazione è chiara. Non esiste alcuna pista nera. Ed è ciò che è attestato all’ultimo atto firmato da Falcone proprio sui delitti eccellenti. Li vagliò tutti. Da Gelli, passando per l’ex neofascista considerato mitomane Alberto Volo, fino a Gladio. Questa è stata la spiegazione logica: visto che c’era ancora divisione all’interno di Cosa nostra e non si raggiunse l’unitarietà per deliberare la morte di Mattarella, il vertice sarebbe ricorso a serial killer esterni. Ecco perché i collaboratori di giustizia non hanno mai saputo indicare il killer: è stato tenuto all’oscuro il nome, per via della mancata unitarietà.
Un omicidio che ritrova la sua “anomalia” proprio in questo. Una efferatezza commessa di nascosto ai componenti della commissione mafiosa stessa. Era emerso, come Falcone ribadì nel 1990 in commissione Antimafia, che una parte del mondo politico ha chiesto aiuto. Sappiamo che Piersanti Mattarella era stato un presidente della Regione che voleva mettere “le carte in regola”. Era un pericolo per Cosa nostra soprattutto in merito alla spartizione degli appalti. Ed era quindi anche “politico”, visto che don Vito Ciancimino – uomo vicinissimo ai corleonesi - fu contrastato da Piersanti Mattarella per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi. Sappiamo che don Vito, da sindaco di Palermo, ricavò tantissimi soldi con gli appalti gestiti da Cosa nostra, tanto che ancora oggi si è in cerca di tutto il suo “tesoro” riciclato. E infatti, da Buscetta a Di Carlo, i pentiti hanno sempre parlato della questione appalti. Non è un caso che Ciancimino stesso depistò l’omicidio Mattarella indicando le Brigate rosse. Fin da subito si volle allontanare la matrice mafiosa del delitto.
La testimonianza dell’allora ministro dell'Interno Virginio Rognoni, può aiutare. Nel 2017 sarà sentito al processo sulla trattativa Stato-mafia a Palermo, e dirà: «Piersanti Mattarella venne da me nel novembre del 1979 e mi disse: “sto combattendo una battaglia difficile, cerco di rovesciare la situazione, soprattutto sui lavori pubblici” e mi fece il nome di Vito Ciancimino come un nome che contrastava questa sua politica». Il diritto alla verità reclamato accoratamente dal giudice Balsamo deve essere preso in considerazione. Ma va manovrato con cura. I fatti possono rovinare storie avvincenti che spesso vengono raccontate da taluni magistrati in Tv e da poco anche in Parlamento. Purtroppo le commissioni parlamentari, se infestate da tesi precostituite e politici suggestionati da taluni programmi televisivi in prima serata, possono fare danni incalcolabili.