PHOTO
Se esistesse un PIL del diritto penale liberale e del giusto processo, credo che con l’anno che si chiude saremmo scesi a livelli di crisi piuttosto preoccupanti. Anziché procedere sulla strada del diritto penale minimo, caposaldo di un diritto penale liberale, abbiamo assistito ad una superproduzione normativa di nuove fattispecie di reato. Dentro e fuori il pacchetto sicurezza si contano credo una quindicina di nuove ipotesi di reato: riguardano i contesti sociali e criminali più disparati e trovano nei fatti di cronaca i loro spunti opportunistici.
Dai rave, alla rivolta carceraria, dall’imbrattamento dei monumenti all’intralcio stradale, dall’accattonaggio all’omicidio navale, dall’occupazione abusiva di immobili all’uso delle armi in luogo pubblico, dal piccolo spaccio all’abbandono scolastico. Ma a preoccupare non è solo il numero degli interventi ma la nuova tavola valoriale che li modella. L’uso delle pene al di fuori dei criteri di proporzionalità. Il punire comportamenti che non erano mai stati ritenuti offensivi, come la resistenza passiva ( tipica forma di protesta non violenta), trasformata addirittura in elemento costitutivo di ben più gravi reati, come quelli di rivolta.
L’estensione dei reati di opinione come l’indistinta e obliqua figura di illecito che colpisce i presunti istigatori: il richiedere, il sostenere e il sollecitare il rispetto dei diritti dei detenuti come potenziale fonte di responsabilità penale. Inquieta il proliferare di misure straordinarie che incidono sulla libertà personale, come l’arresto differito nei reati di stalking, e il DASPO da luoghi e mezzi destinati al trasporto comminato ai presunti autori di reati contro il patrimonio. Si va manifestando con queste forme un nuovo rapporto fra cittadino e autorità, nel quale le soglie di pena anche per offese minime nei confronti delle forze dell’ordine sono moltiplicate, a favore di una indistinta criminalizzazione che finisce con il coinvolgere ogni forma di dissenso e di disagio sociale. Così come accade per i CPR, luoghi di privazione della libertà senza colpa, dove a fronte di condizioni sub- umane dei trattenuti, l’unico intervento è l’estensione dei rimedi repressivi. Si introduce così sia nelle carceri che nelle città un principio di obbedienza che sembra sostituirsi al principio del rispetto reciproco, della tolleranza, della mitezza, della proporzione. In questo ribaltamento valoriale, la tutela della maternità e dell’infanzia divengono recessivi rispetto alla presunta difesa da reati di strada bagatellari spropositatamente insufflati e pubblicizzati dai media. Nonostante l’atroce realtà del numero dei suicidi in carcere e delle condizioni di sovraffollamento in alcune realtà prossime al collasso, carcere e pena restano al centro della scena normativa.
L’inumanità e il degrado della condizione carceraria non bastano a far comprendere l’urgenza di un’inversione rapida di rotta, verso l’elaborazione di un progetto di riforma radicale dell’esecuzione penale ben diverso da quello ossessivamente riproposto della edificazione di nuove carceri. Giace d’altronde minaccioso il disegno di riforma costituzionale dell’art. 27 con la quale si vuole mettere all’angolo, oscurandolo, il principio di rieducazione scritto in quell’articolo della Costituzione, al fine di far invece brillare di luce propria la funzione intimidativa e retributiva della pena e di consentire al giudice di comminare “pene esemplari”. Il che significa l’infliggere una pena che non è commisurata alla responsabilità personale del singolo, magari un poveraccio scelto per caso, la cui esperienza sia di monito per la collettività intera. D’altronde lo stesso Ministro Nordio ha più volte ribadito che aumentare le pene non riduce affatto il
numero dei reati, ma è utile a dare un segno di attenzione e di presenza dello Stato. Il che significa che la sicurezza dei cittadini è affidata a questo segnale simbolico di vicinanza. Per non dire – dovendosi accontentare dei simboli - di quell’unico reato che si sarebbe dovuto abrogare, l’abuso d’ufficio, che invece è ancora vivo e vegeto sostenuto da tali e tante voci interne alla magistratura da potersi attendere prima o poi una triste palinodia governativa. Al tempo stesso lo schema della pena senza prova e senza processo delle misure di prevenzione dilaga ovunque, indifferente ai segnali della CEDU, nei contesti più disparati.
Ma se per il diritto penale si chiude un annus horribilis, per il processo penale il quadro non è migliore, perché il suo volto esce alterato nei suoi tratti essenziali dell’oralità e dell’immediatezza, dalla riforma Cartabia. Ne esce profondamente modificato il rapporto stesso fra difensore e processo, disarticolato in molteplici sottosistemi sanzionatori che spingono verso una nuova figura di avvocato- mediatore, nonché anche il rapporto del difensore con il suo assistito.
Qui il difensore è collocato in un ruolo subalterno che ne umilia la funzione sottraendogli il potere di impugnare una sentenza ingiusta. Se è vero che, come insegna il nostro giudice delle Leggi “al riconoscimento della titolarità dei diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere”, quando il diritto in gioco è un diritto fondamentale come quello di impugnare una sentenza ingiusta, questo potere non può essere limitato da formalismi sproporzionati al bene oggetto di tutela, che è quello della libertà personale. Se poi è lo Stato stesso a conferire il mandato al difensore d’ufficio, quel mandato non può che essere pieno ed incondizionato e non può essere subordinato ad ulteriori irragionevoli adempimenti formali. La rimozione di questi ostacoli è urgente e fondamentale ma deve essere solo l’inizio di un più ampio progetto riformatore. L’avvocatura consapevole del proprio difficile ma indispensabile ruolo sociale di difesa delle libertà e delle garanzie di ogni cittadino non farà mancare la sua voce e l’autorevolezza della propria azione. L’indifferibile rifondazione del modello accusatorio passa infatti evidentemente attraverso un lavoro più ampio e più complesso, ma al quale occorre dare impulso con tutte le energie e gli strumenti disponibili.
Si apre dunque per i penalisti italiani un anno di impegno straordinario, perché non si tratta solo di difendere, in un confronto serrato con il Governo ed il Parlamento, le fondamenta del giusto processo e del diritto penale liberale da un assalto massiccio, ma anche di ricostruire faticosamente le basi di un nuovo rapporto fra la cultura del Paese e la cultura del processo penale, attraverso un dialogo costante con la società, con la politica e con tutte quelle voci all’interno della magistratura che hanno a cuore la difesa dei diritti e delle garanzie dell’imputato come valori democratici irrinunciabili. Si tratta di una riedificazione che passa inevitabilmente attraverso la difesa dei valori costituzionali posti a tutela delle libertà fondamentali del cittadino e del diritto di difesa, ma questo implica evidentemente anche un richiamo diretto ed inequivoco al ruolo dei giudici che saranno chiamati ad applicare quelle leggi ed al ruolo della Corte costituzionale, che si ricordi di essere ultima garante nella salvaguardia della legalità sostanziale e del giusto processo …