A Palazzo Chigi preferiscono non rispondere con delle note ufficiali di smentita «ogni cinque minuti» a delle indiscrezioni giornalistiche, ma la linea sul possibile rimpasto resta sempre la stessa ed è verosimile che lo ripeta, nei prossimi giorni, direttamente Giorgia Meloni.

È cioè possibile, anzi probabile, che da qui a qualche mese alcune caselle dell'esecutivo vengano sostituite, ma questo non comporterà nessuna soluzione di continuità col governo attualmente in carica. In parole povere, non ci sarà alcun Meloni-bis, almeno nelle intenzioni nella premier e almeno in questa legislatura. Poi, se le vicende del centrodestra e dei rapporti tra alleati (vedi con Salvini) dovessero prendere una piega ingestibile, si tratterebbe della classica crisi di governo con tutto ciò che comporterebbe, ma obiettivamente questa ipotesi, al netto delle schermaglie da campagna elettorale, sembra lontana.

Nelle intenzioni della presidente del Consiglio, dunque, non c'è quella di impegnarsi in un passaggio parlamentare per aprire una nuova fase del governo del centrodestra con una squadra sostanzialmente rinnovata. Ci sono però dei ministri - e questo è indiscutibile - su cui già da tempo si stanno concentrando i rumors di Palazzo su una possibile sostituzione. Tra questi, occorre distinguere diverse categorie: la prima è di quelli che saranno con ogni probabilità sostituiti per ragioni giudiziarie, e di questa schiera fa parte la ministra per il Turismo Daniela Santanchè, in predicato di lasciare il governo in base alla regola messa a punto dalla stessa Meloni, per cui un ministro deve dimettersi se sarà rinviato a giudizio.

La diretta interessata conta di restare in sella fino alla decisione ufficiale dei giudici, ma sotto la pressione della Lega e di una parte dello stesso partito di maggioranza relativa potrebbe fare un passo indietro prima. Poi c'è la categoria di chi se ne andrà perché promosso, e questo lo si vedrà quando, al rinnovo delle istituzioni europee, il nostro paese dovrà indicare le personalità scelte per fare il commissario Ue. Qui in ballo ci sono il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, quello degli Affari Ue Raffaele Fitto e quello dell'Industria e del Made in Italy Adolfo Urso, con Fitto in vantaggio sugli altri due. E anche in questo caso, siamo lontani da un rimpasto stile Prima Repubblica e ancora nel novero di cambiamenti mirati.

Infine - ed è questo il terreno più delicato - ci sono i ministri in discussione per motivi politici, perché il modo di gestire i rispettivi dicasteri non soddisfa pienamente Palazzo Chigi o gli altri azionisti di maggioranza. Le voci si stanno concentrando su tre figure: il ministro della Pa Paolo Zangrillo, quello dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin e il ministro della Giustizia Carlo Nordio.

È curioso notare come sui primi due e sulla citata Santanchè sia stata la Lega di Salvini a far filtrare finora dei giudizi critici, forse in virtù di un appetito per questo o quel dicastero (in primis per il Turismo, in passato feudo del Carroccio). Ma è difficile che la premier siluri un esponente azzurro senza sostituirlo con un suo compagno di partito, o che faccia una mossa di questo genere contro la volontà di Antonio Tajani, assecondando di fatto le mire leghiste. Soprattutto in una fase in cui Fi appare in buona salute, tanto da poter operare il clamoroso sorpasso ai danni del Carroccio.

Ne consegue che il ministro seriamente a rischio di sostituzione “politica” è il guardasigilli Nordio, in quanto non espressione diretta di alcun partito. Meloni lo scelse proprio in virtù del suo noto spirito libero, tanto da condurre una polemica brutale con Silvio Berlusconi che voleva a tutti i costi un azzurro a via Arenula. Ora, però, quella libertà che lo ha portato a fare il ministro sembra ritorcersi contro di Nordio, che ha palesato anche l'atteggiamento da battitore libero, poco incline a coordinarsi col resto della squadra, compresa chi la guida.

Chi conosce il guardasigilli è pronto a giurare che negli atteggiamenti dello stesso non vi sia nulla di polemico nei confronti della linea del governo, ma che si tratti solamente di quella che i francesi chiamano naïveté, ovvero di un'ingenuità che porta Nordio a non tenere conto delle liturgie che regolano una coalizione politica. Lo si è visto in occasione della partecipazione alla Leopolda (sventata dal sottosegretario Alfredo Mantovano all'ultimo minuto) e delle affermazioni in favore di una commissione d'inchiesta sul presunto dossieraggio. Peccati ritenuti veniali, ma spia di possibili guai più seri in corso di legislatura.

Il pensiero va soprattutto alla questione della separazione delle carriere, che il governo ufficialmente continua a sostenere, ma che potrebbe accomodarsi su un binario morto per favorire l'avanzamento dell'unica riforma costituzionale che veramente interessa a Meloni, e cioè il premierato. Per gestire un passaggio del genere il profilo di ministro ideale è un ministro esperto, diplomatico, capace di eclissarsi quando gli venga richiesto. Non esattamente la naïveté nordiana.