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Il linguaggio è forse superficiale, inappropriato. Ma da nessuna parte, nella sentenza che ha assolto un operatore scolastico romano dall’accusa di aver infilato le mani negli slip di una studentessa minorenne, c’è scritto che non è violenza perché la palpata è durata meno di dieci secondi. È questo il primo caso che ha fatto finire sulla graticola la giudice Maria Bonaventura, presidente del collegio che ha assolto il bidello e poi il dirigente del museo accusato di molestie sessuali. La sua colpa: aver ritenuto non provate le molestie e averlo fatto pur essendo donna. E in virtù di quelle decisioni, ora, si invoca una punizione per la toga, pronta a coinvolgere il Csm per tutelare la propria onorabilità.
Di tali sentenze si è parlato per giorni, riassumendele sempre con slogan pronti all’uso per suscitare facile indignazione. Ma il punto, stando alle scarne quattro pagine della prima decisione incriminata, sarebbe un altro: «Non sono emersi elementi probatori sufficienti a formulare, senza alcun ragionevole dubbio, un giudizio di responsabilità dell'imputato», scrive la giudice. Che pure ritiene veritiere le dichiarazioni della ragazza, «pienamente credibili, in quanto dettagliate, prive di contraddizioni, logiche, coerenti, nonché prive di alcun intento calunnioso nei confronti dell'imputato», ampiamente confermate, poi, dalla testimonianza dell’amica che, in quel momento, si trovava con lei.
L’imputato avrebbe ammesso di aver toccato la ragazza «per scherzo», ma negando di aver infilato le mani nei pantaloni: dopo aver visto la giovane ridere e scherzare con le amiche mentre faceva il gesto di tirarsi su i pantaloni, «si limitava ad assecondarla nel movimento e, prendendola da dietro attraverso i passanti dei pantaloni, glieli alzava sollevandola leggermente da terra». Il tutto - questo il riferimento al tempo - sarebbe durato tra i cinque e i 10 secondi. Solo una volta vista la reazione della giovane l’avrebbe seguita per spiegarle che si trattava di uno scherzo. Nel corso della giornata, a seguito degli insulti ricevuti dagli altri ragazzi, avrebbe cercato la ragazza per darle spiegazioni, incrociandola al bar, dove, aggredito verbalmente dalle amiche, ha reagito tirando una testata contro il bancone.
Per la giudice, «la condotta posta in essere dall'imputato, quale descritta dalla persona offesa, integra sicuramente l'elemento oggettivo» della violenza sessuale - dunque non negata, in linea di principio - dato il repentino toccamento dei glutei. Ma quanto all'elemento soggettivo, si legge nella sentenza, «deve rilevarsi che la repentinità dell'azione, senza alcun insistenza nel toccamento, da considerarsi quasi uno sfioramento, il luogo e il tempo della condotta, in pieno giorno in locale aperto al pubblico e in presenza di altre persone, e le stesse modalità dell'azione poi conclusasi con il sollevamento della ragazza non consentono di configurare l'intento libidinoso o di concupiscenza generalmente richiesto dalla norma penale».
Da qui la convinzione che si trattasse di «un atto scherzoso, sicuramente inopportuno nel contesto in cui è stato realizzato per la natura del luogo e dei rapporti tra alunno e ausiliario», ma le modalità dell'azione «lasciano ampi margini di dubbio sulla volontarietà nella violazione della libertà sessuale della ragazza, considerato proprio la natura di sfioramento dei glutei, per un tempo sicuramente minimo, posto che l'intera azione si concentra in una manciata di secondi, senza alcun indugio nel toccamento. Inoltre, appare verosimile che lo sfioramento dei glutei sia stato causato da una manovra maldestra dell'imputato che, in ragione della dinamica dell'azione, posta in essere mentre i soggetti erano in movimento e in dislivello l'uno dall' altra, potrebbe avere accidentalmente e fortuitamente attivato un movimento ulteriore e non confacente all'intento iniziale». E solo di fronte al disagio della ragazza l’uomo si sarebbe reso conto «della natura inopportuna del suo gesto, andato oltre le proprie intenzioni, tanto da cercare di chiarire la situazione ed evitare ogni fraintendimento». A motivare l’assoluzione, dunque, «l'incertezza sulla sussistenza dell'elemento soggettivo» e non la durata del gesto.
La seconda sentenza, invece, include certamente una valutazione “psicologica” della presunta vittima: «Non si può escludere che la parte lesa, probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l’atteggiamento dell’imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente». Anche in questo caso parole inappropriate, dal momento che - come già chiarito dalla Cassazione - elementi come l’aspetto fisico della vittima sono «irrilevanti», in quanto «eccentrici» rispetto al tipo di reato. Ma a muovere le giudici è stato altro: le testimonianze delle colleghe della giovane che ha denunciato il suo superiore, che avrebbero sminuito i fatti, definendolo un «giocherellone».
Insomma, anche in questo caso non ci sarebbero stati sufficienti elementi a sostegno dell’accusa, rappresentata dal pm Antonio Calaresu, che nel 2021 aveva raccolto la denuncia della donna, che dopo il primo «quanto mi arrapi» pronunciato dall’uomo si sarebbe vista costretta a subire palpeggiamenti su «fianchi, schiena e pancia» e, in altre occasioni, anche sul seno, quando il dirigente si sarebbe spinto fino a «leccarla e a morderle le orecchie», infilandole «la lingua in bocca». Fatti confidati dalla donna alle colleghe, che però non hanno sostenuto la sua tesi. Innocente o colpevole che sia, per le giudici determinante è stata l’assenza di prove, come nel caso del bidello. E in tale situazione, per il sistema penale italiano non è solo possibile, ma doveroso assolvere.
Certo la cura del linguaggio potrebbe essere migliore, come insegna un altro caso, poi conclusosi con il ribaltamento della sentenza di assoluzione, che aveva destato ugualmente scalpore e “provocato” un’ispezione ministeriale (di cui poi non si seppe nulla): la presunta vittima fu di fatto etichettata come «tutt’altro che femminile» e «piuttosto mascolina». Le ragioni dell’assoluzione, poi ritenuta sbagliata, non erano quelle: per le giudici, la ragazza non era attendibile e ciò a prescindere dal proprio aspetto fisico. Ma quelle parole erano sbagliate, anche per il difensore degli imputati, che definì pericolosa per lo stesso processo quella terminologia. Al punto forse, ipotizzò, di «condizionare» i giudici della Cassazione, che spianarono la strada per la condanna finale degli imputati.