Le riforme del processo penale degli ultimi anni sono state tutte improntate a rendere più “efficiente” la giustizia, tese a diminuire i tempi di tutte le fasi non solo giurisdizionali ma anche lavorative, questo grazie anche ad una certa accelerazione tecnologica – basti pensare al portale telematico – portatrice della falsa promessa di un minor tempo di impiego per svolgere tutte quelle attività necessarie all’esercizio del diritto di difesa.

Il risultato di quella falsa promessa è l’alienazione che ci pervade durante il tempo trascorso in solitudine davanti ad uno schermo, e una certa eugenetica forense in danno degli avvocati meno giovani e tecnologicamente o economicamente meno attrezzati.

L’attività svolta dietro a un computer sembra una corsa su un tapis roulant: corriamo non per arrivare ad una meta ma per rimanere nello stesso punto e per non cadere in conseguenza della riduzione del ritmo del passo. L’alienazione creata – forse non proprio inconsapevolmente – tende a farci dimenticare che una delle cause della fine della funzione dell’avvocato è iniziata quando nel nostro processo ha avuto ingresso la possibilità che un cittadino venga giudicato da un giudice senza volto, nel segreto più totale di una camera di consiglio virtuale, se non domestica.

Il giudizio di impugnazione, sia esso di merito o di legittimità, si svolge non è dato sapere dove e alla presenza di chi. Si invia una mail e si riceve – talvolta, non sempre – una risposta per mail. Un cittadino viene condannato da un giudice senza volto, e la condanna gli viene inviata attraverso un computer. Il giudice, dunque, non è più un essere umano con un volto che legge la propria decisione davanti all’imputato, ma un individuo sconosciuto che attraverso la tecnologia recapita la sentenza direttamente al domicilio dell’imputato. È la trasposizione del sistema bellico del drone nell’amministrazione della giustizia, della guerra “intelligente” ed efficiente che riduce al minimo il dispendio umano di chi la realizza ed eleva al massimo quello di chi la subisce. E, come nella guerra tecnologica, anche nella giustizia chi la gestisce in questo modo ritiene naturale che alla propria superiorità tecnologica si accompagni la propria superiorità morale. L’avvocato, da sempre visto come un fastidioso granello che inceppa l’ingranaggio della giustizia efficiente, in questo medioevo della giustizia è diventato un soggetto superfluo e da marginalizzare. Un mittente di pec, un accompagnatore all’inginocchiatoio riparativo del pentimento (e del risarcimento), un nome da scrivere nel verbale di un’udienza che non c’è, un interprete della babele dei “protocolli” della repubblica federale giudiziaria italiana, un risponditore disilluso alla “X” apposta sul modulo delle conclusioni della pubblica accusa.

L’avvocato è stato quindi indotto in una fortissima crisi di gratificazione. Quasi tutto quello che un tempo erano il suo lavoro, la sua funzione, il suo ruolo anche sociale, i suoi riti, gli è stato tolto. Il futuro disegnato appare sempre più fosco. La crisi dell’avvocatura e della “vocazione” è conseguenza diretta di questa incertezza sulla direzione della storia che rende difficile reagire in modo sistemico. L’avvocato non è più né un produttore né un conoscitore di sapere, ma il gestore di una quotidianità eterea che vive imprigionato nell’inferno dell’eguale, dei giorni tutti simili, delle procedure burocratiche, dell’incomunicabilità, del venir meno dei rapporti umani.

Parafrasando Nietzsche e il suo concetto di “ultimo uomo”, l’avvocato attuale, così come scientemente trasformato dalle ultime riforme, è diventato “l’ultimo avvocato”, antitesi non tanto di un avvocato ideale, ma di quello reale creato dalla storia, dalla società e dalle leggi. Un ultimo avvocato stanco che non si assume alcun rischio rifugiandosi nella conservazione di quanto ha, poco o molto che sia, e che vive in una comunità sempre più povera culturalmente, moralmente e socialmente, humus perfetto per la ribalta di figure modeste – quando non dannose o, peggio, pericolose – e per l’allontanamento delle migliori intelligenze dalla comunità politica forense. In questo medioevo dell’avvocatura si affaccia un pericolo ancora maggiore, quella che viene impropriamente definita intelligenza artificiale.

La scelta del nome è indicativa della volontà di nascondere, dietro ad un gradevole sostantivo, una realtà pericolosa. È infatti errato parlare di “intelligenza”, perché essa, come ci dice la radice etimologica latina, è la capacità di “leggere dentro”, di immergersi, e certamente la tecnologia non è in grado di farlo.

In realtà bisognerebbe parlare di “calcolo artificiale”, perché l’A.I. non è altro che questo. E qualsiasi tipo di calcolo, di analisi di dati, di idolatria degli stessi, nell’ambito delle scienze umane – come il diritto – rappresenta una pericolosa abdicazione al progresso portato dal “lume della ragione” negli ultimi secoli.

Con il calcolo artificiale si affaccia una nuova forma di autoritarismo, pericolosa perché ammaliante e fintamente razionale, che occorre prima comprendere per poi combattere. Il pericolo più grande è rappresentato dallo stimolo all’indolenza e alla deresponsabilizzazione del giudice, alla irrilevanza dell’avvocato, alla forza del calcolo dei dati che certamente sarà decantata dalla pubblica accusa a supporto della repressione oggi dei reati e un domani anche della valutazione dissenziente del giudice. Sarà necessario battersi per un umanesimo digitale per governare l’effetto dirompente che il calcolo artificiale avrà sul contributo dell’uomo nei processi decisionali, perché questa potentissima tecnologia non è tesa a integrare o potenziare le capacità umane, ma a sostituire il fattore umano e la razionalità umana nelle decisioni.

Come invertire questa deriva reazionaria e autoritaria? Alzando la voce, risollevando gli orgogli, pretendendo di riportare l’avvocatura alla sua funzione. Un primo inizio? Riportare fisicamente gli avvocati e i magistrati nelle aule, abolire la possibilità della sentenza–drone, abrogare qualsiasi norma che elimini la presenza fisica dell’avvocato e dell’imputato dalle aule, riportare il processo penale alla sua funzione scolpita da principi – oralità, contraddittorio, parità delle parti, solo per citarne alcuni – vilipesi dal legislatore e purtroppo, in alcuni casi, mortificati persino dalla Corte costituzionale.