L’UTILITÀ DEGLI STUDI SUL CERVELLO

Quando si pensa all’applicazione delle neuroscienze nell’ambito della giustizia penale, la prima immagine che viene in mente è uno scan del cervello di un imputato a processo per omicidio a sostegno della sua infermità mentale. Questa immagine riflette perfettamente le note, tutt’ora dominanti, del dibattito internazionale sui possibili contributi delle neuroscienze al diritto. Dalla prova del vizio di mente alla c. d. “neuropredizione” della recidiva, le discussioni giuridiche sull’apporto delle neuroscienze in ambito penale continuano a ruotare intorno al ridondante “ bad or mad dilemma” ( traducibile con: i “ criminali” sono ‘ folli’ che vanno curati o ‘ cattivi’ che vanno puniti?”).

Pertanto, queste discussioni tendono a focalizzarsi prettamente su giudizi individuali inerenti alla ( non) imputabilità o alla pericolosità sociale dell’autore di reato. Per quanto popolare e probabilmente affascinante, questo dibattito continua a restare sospeso a mezz’aria tra teoria del diritto e realtà pratica, immobile dinanzi a irrisolte problematiche empiriche, etiche e giuridico- processuali e scevro di riscontri significativi nelle aule di tribunale. Se, da una parte, questa miopia giuridica perde di vista la complessità del fenomeno criminoso, in particolare la sua dimensione sociale, dall’altra offusca una serie di ambiti dove gli studi sul cervello potrebbero, anzi, dovrebbero apportare un cambiamento significativo. La presa in carico di questi ambiti richiede anzitutto un cambio di prospettiva, capace di spostare il focus del contributo delle conoscenze neuroscientifiche da una dimensione individuale a una dimensione strutturale. Questa prospettiva, quindi, vede come oggetto del cambiamento non tanto l’autore di reato quanto il sistema di giustizia nella sua interezza, inclusi le ideologie che lo animano, i luoghi in cui si materializza, e la realtà dei suoi meccanismi. Attraverso questo cambio di prospettiva, la domanda da porsi non è più se ( e come) le neuroscienze possano contribuire a scusare o curare il singolo “criminale”. Piuttosto, la domanda diventa se ( e come) le neuroscienze possano contribuire a cambiare il modo in cui la giustizia penale guarda e tratta le persone che ne vengono a contatto.

Negli ultimi dieci anni, questa domanda ha fatto da sfondo al mio lavoro di ricerca e di insegnamento universitario a cavallo tra Europa e Stati Uniti. In questo lavoro, sfociato in una serie di pubblicazioni giuridiche tra cui la mia recente monografia “ The Emotional Brain and the Guilty Mind: Novel Paradigms of Culpability and Punishment” ( Hart Publishing, 2021), ho sviluppato una contronarrativa di come le neuroscienze, in particolare le neuroscienze sociali, possano assurgere a strumento di umanizzazione della giustizia, dando sostegno all’affermazione di ideologie e pratiche che siano effettivamente in linea con proclamate esigenze di umanità, dignità e uguaglianza nel trattamento delle persone condannate. Attraverso l’analisi di studi sul bisogno neurobiologico universale di appartenenza sociale, sul fenomeno della c. d. neuroplasticità che sta alla base del cambiamento comportamentale, o sui danni cerebrali causati dall’isolamento e da ambienti degradanti, il mio lavoro mira a usare questo corpo di conoscenze scientifiche per contrastare logiche e pratiche istituzionali tendenti all’esclusione e alla dura punizione. Al contrario, supporta l’adozione di un modello di giustizia ancorato al valore della inclusione sociale e che si articoli in risposte sanzionatorie che offrano alle persone condannate concrete opportunità di cambiamento in positivo attraverso il contatto con luoghi sani e l’instaurazione ( o il mantenimento) di rapporti sociali stabili, inclusi i legami personali, il coinvolgimento in iniziative sociali, la partecipazione civica, l’istruzione universitaria e il lavoro adeguatamente retribuito.

Come spiego nei miei scritti, questo corpo scientifico offre un importante supporto empirico all’adeguatezza di approcci e risposte di carattere relazionale e reintegrativo ( tra cui, ma non solo, la giustizia riparativa) a promuovere il comportamento prosociale, e sta fornendo prova essenziale dei deleteri effetti neurobiologici che ambienti carcerari disumani, degradanti, e isolanti possono causare nelle persone ristrette — soprattutto tra quante abbiano pregressi traumatici— provocando, o aggravando, problemi di carattere psicologico e psichiatrico, e compromettendo il funzionamento sociale nel lungo periodo.

Gli studi di neuroscienze sociali gettano così ulteriore luce sulla necessità che i luoghi di giustizia ( soprattutto quelli detentivi) siano ambienti umanizzanti che favoriscano contatti sociali sani e stimolanti e dove le persone possano vivere la propria condanna in condizioni sicure, dignitose e, per quanto possibile, vicine alla vita reale. Detto altrimenti, i luoghi di giustizia non devono consistere in luoghi ove occultare esseri umani e problemi sociali, per dirla con Angela Davis, ma costituire opportunità di crescita, di responsabilizzazione, di superamento di traumi e di percorso al miglioramento attraverso il riconoscimento dei bisogni affettivi e sociali della persona e attribuendo a quest’ultima un ruolo attivo nel suo processo di cambiamento. Certamente, la scienza da sola non basta a supportare un tale cambiamento sistemico. Occorre una previa affermazione, o un rafforzamento, dei valori giuridici e sociali che animano gli scopi della giustizia, valori che certamente non devono rinunciare ad esigenze di certezza, proporzionalità ed equità nella risposta al reato, ma che riconoscano l’umanità universale delle persone condannate per favorire il pieno raggiungimento del nobile fine della ( re) integrazione sociale. Quindi no: la vera rivoluzione delle neuroscienze in ambito penale non sta nel fornire prove inedite dell’innocenza di un imputato. Più concretamente, per quanto complesso, il vero apporto offerto da questa branca del sapere sta nel contribuire ad umanizzare lo sguardo della giustizia penale verso le persone che ne sono implicate, sollecitando in tal modo una critica presa di coscienza degli scopi e della realtà dei suoi meccanismi sanzionatori alla luce delle evidenze empiriche.

Questo processo di umanizzazione deve far sì che la realtà della pena non comporti la “morte civile” di una persona a causa di un errore, ma sia tale da favorire la crescita personale, la scoperta del sé, o anche la rinascita di una persona nonostante quell’errore. Come ho scritto nel mio libro, citando il celebre avvocato americano Bryan Stevenson, “ognuno di noi è molto più dell’atto peggiore che ha commesso”.

* Ricercatrice Senior di Diritto Penale, Max Planck Institute di Friburgo ( Germania)