La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il caso di un uomo morto di overdose mentre si trovava in stato di arresto in questura a Milano.

Secondo i giudici di Strasburgo è stato violato l’articolo 2 della Convenzione, che tutela il diritto alla vita: nella vicenda in esame, dichiara la Corte, «il Governo non ha dimostrato in modo convincente che le autorità abbiano fornito» all’uomo, indicato con le iniziali C.C., «una protezione sufficiente e ragionevole della sua vita». Soprattutto in considerazione della posizione di vulnerabilità in cui si trovava: «In alcuni contesti, come la detenzione nelle stazioni di polizia – sottolineano i giudici -, anche quando non è dimostrato che le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere» del rischio a cui è esposta la persona posta in custodia, «ci sono alcune precauzioni di base che gli agenti di polizia dovrebbero prendere in tutti i casi al fine di ridurre al minimo qualsiasi rischio potenziale per la salute e il benessere della persona arrestata».

Il caso risale al 10 maggio 2001. L’uomo viene arrestato in piena notte nel suo appartamento a Milano con l’accusa di traffico di stupefacenti. Durante la perquisizione, come riferisce il rapporto, C.C. comincia a mostrare segni di malessere: attacchi di panico e tentativi di autolesionismo, dovuti a una «condizione psicofisica compromessa probabilmente dal consumo di droghe». Intorno alle 3 arriva in questura, ma «appare calmo» fino alle 5.50. A quell’ora si sveglia e chiede di usare il bagno, dove sviene dopo aver vomitato. Nella dichiarazione resa al pubblico ministero nel 2002, l’agente di custodia racconta di averlo assistito e di aver lanciato l’allarme dopo aver notato che l’uomo perdeva sangue dal naso e saliva dalla bocca. L’ambulanza arriva intorno alle 6 e tenta inutilmente la rianimazione: C.C. viene dichiarato ufficialmente morto alle ore 6.16 all’ospedale Fatebenefratelli di Milano.

Dalle indagini non emergono eventi esterni connessi con il decesso: la morte è dovuta a un’overdose di cocaina. Ma i familiari portano il ministero dell’Interno in tribunale per omissione di soccorso e omessa sorveglianza, ottenendo ragione in primo grado: per i giudici di Milano gli agenti non avevano garantito una protezione adeguata. La decisione viene però ribaltata in appello e confermata in Cassazione. La compagna, la madre e la figlia dell’uomo fanno quindi ricorso alla Corte di Strasburgo, che dichiara il caso ammissibile. E gli riconosce un risarcimento di 30mila per danni morali e 10mila per le spese processuali. «Come regola generale – scrivono i giudici di Strasburgo -, il semplice fatto che un individuo sia morto in circostanze sospette durante la detenzione dovrebbe sollevare la questione se lo Stato abbia rispettato l’obbligo di proteggere il suo diritto alla vita».