«Mi sentivo come un uccellino in gabbia. Senza la possibilità di poter fare attività, senza poter far niente». Durante il processo, «avevo voglia di urlare, perché non sapevo cosa stavo succedendo. Neppure oggi l'ho capito ancora perché lo hanno fatto». Beniamino Zuncheddu potrebbe provare tanta rabbia, avercela con lo Stato, con la giustizia. Potrebbe tirare fuori tutto il dolore patito per sventolarlo in faccia ai responsabili, sperando di far loro male tanto quanto è stato male lui. Ma non lo fa. Ha lo sguardo triste, ma stranamente sereno, quando 24 ore dopo la sua assoluzione, pronunciata dopo 33 anni di ingiusta detenzione per una strage mai commessa, incontra la stampa nella sede del Partito Radicale, l’unica forza politica ad aver combattuto questa battaglia insieme a lui e al suo avvocato Mario Trogu, che è riuscito ad ottenere la revisione del processo - chiesta dall’allora procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni - e, alla fine, l’assoluzione dalla Corte d’Appello di Roma.

«Non provo odio. Odio, rabbia, per niente», ha sottolineato Zuncheddu parlando di chi lo ha accusato in aula, «perché anche loro sono delle vittime, come sono stato vittima io, per colpa dell’ingiustizia». E Zuncheddu, entrato in carcere quando aveva 27 anni con un’accusa atroce, non ha fatto altro che attendere la giustizia. «Dal primo giorno che sono entrato l’aspettavo - ha sottolineato -. Mi è stato chiesto tante volte: ravvediti. Me lo dicevano sempre: se ti ravvedi ti ridiamo la libertà. Ma di che cosa mi devo ravvedere? Se non ho comprato niente non posso pagare niente. Per loro ravvedimento voleva dire libertà però non ho accettato, perché non c'entro niente. Non ho fatto niente, perché mi devo ravvedere?».

Zuncheddu era accusato di strage per la morte di tre pastori tra le montagne del Sinnai, l'8 gennaio del 1991. Per quel delitto era stato condannato all’ergastolo e scarcerato a fine 2023 dai giudici della Capitale, che hanno accolto la richiesta di sospensione della pena avanzata dal suo avvocato Mauro Trogu. Tutto ruota attorno al super teste Luigi Pinna, che quel giorno sopravvisse all’agguato. La sua versione, però, non ha retto alla prova del tempo. Nel corso della requisitoria il sostituto procuratore generale, che ne ha chiesto l’assoluzione, ha infatti ricordato che si è andati avanti per «30 anni con le menzogne». Il 12 dicembre scorso l’atto decisivo del procedimento: il confronto, in aula, tra Pinna e il poliziotto Mario Uda. Pinna, inizialmente interrogato, aveva sostenuto di non aver riconosciuto l’aggressore, ma, qualche settimana dopo, ha cambiato versione e ha accusato Zuncheddu che è stato prima arrestato e poi condannato. Quella testimonianza, determinante per la condanna del pastore sardo, sarebbe stata frutto delle pressioni di Uda.

La battaglia di Zuncheddu ha avuto come formidabile alleata Irene Testa, garante dei detenuti di Cagliari e tesoriere del Partito Radicale. Che ha lanciato un monito alla politica e alla giustizia, per una verità venuta fuori troppo tardi. «Penso che una giustizia giusta non debba aspettare 33 anni per dirci che è giusta che è stata giusta, perché a Beniamino è stata rubata la vita, è stata sottratta la sua gioventù. A questa famiglia la si è fatta finirei in un tritacarne infinito - ha evidenziato Testa -, è una famiglia che ha patito, che ha dovuto affrontare non soltanto sofferenze psicologiche, ma anche sofferenze economiche. Ho qui davanti a me Augusta, la sorella di Beniamino, che ha lottato davvero come una leonessa per fare in modo che venisse fuori la verità su questo suo fratello e devo dire grazie in particolare ad una persona, l'avvocato Mauro Trogu, che ha fortemente creduto nella vicenda di Beniamino Zuncheddu, che l'ha studiata, è andato a cercare negli atti dei tribunali, negli archivi, dei fascicoli che risalivano a trent’anni prima, e grazie anche alla procuratrice Francesca Nanni, che ha creduto in questa vicenda e ha riaperto questo processo».

Ma ci sono delle riflessioni importanti da fare, ha aggiunto Testa, «perché innanzitutto c'è una fase, che è quella delle indagini preliminari, che ci ha dimostrato come quelle indagini sono state fatte male, molto male e purtroppo queste indagini malfatte non riguardano soltanto un singolo caso, non riguardano soltanto il caso di Beniamino Zuncheddu, ma riguardano molti Beniamino Zuncheddu nel nostro Paese. Perché sono tante le persone assolte spesso perché il fatto non sussiste, tante persone che ingiustamente ogni anno finiscono in carcere proprio per le indagini preliminari mal fatte. I dati ci dicono che sono circa mille ogni anno - ha sottolineato -. Noi sappiamo anche che i cittadini italiani hanno votato un referendum proprio sulla responsabilità civile dei magistrati, un referendum promosso dal Partito radicale, da Enzo Tortora in particolare, che allora era presidente del Partito Radicale. Quel referendum i cittadini italiani lo votarono, ma la legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata poi capovolta dal Parlamento e quindi di conseguenza nessun magistrato che sbaglia paga».

La partita da giocare, ora, è quella del risarcimento: «Beniamino - ha proseguito Testa - mi ha raccontato che sì, è contento, ma chi gli restituirà questi 33 anni e soprattutto quando arriverà il risarcimento per quello che ha dovuto patire? Io credo che un risarcimento non possa attendere, perché Beniamino ha già atteso troppo e chiudo dicendo che in questa giornata di apertura dell’anno giudiziario non credo nessuno chiederà scusa a Beniamino Zuncheddu, ma sarebbe bello se qualcuno lo facesse. Mi auguro che, comunque, la vicenda di Beniamino serva quantomeno da monito, oggi, per capire quanto è importante che la giustizia italiana rifletta e contribuisca essa stessa alla riforma. che è ormai urgente e necessaria proprio affinché non ci siano più Beniamino Zuncheddu nel nostro Paese».

Trogu ha raccontato il primo incontro con Zuncheddu in carcere, che si era «risolto in un in un lungo silenzio da parte sua - ha sottolineato -. Mi guardava con uno sguardo come per dire ma: qui siamo alla frutta, se questo è colui che adesso mi dovrebbe aiutare non esco più. Mi guardava con molta diffidenza. È stato molto lungo il percorso di per guadagnarmi la fiducia dei familiari di Beniamino, in questo mi ha aiutato tantissimo mia moglie e mia collega di studio Elisa, che ha avuto un ruolo fondamentale. Più il tempo passava, più gli elementi positivi venivano a galla, più la pressione su di me aumentava - ha aggiunto -, perché Beniamino e la sorella, da persone semplici, dicevano: ma insomma, abbiamo la prova, abbiamo le consulenze, se una sentenza è sbagliata perché non facciamo qualcosa subito? Quante volte ho chiesto di aspettare, abbiate pazienza, non basta, bisogna fare di più, non possiamo giocarci male le poche carte che abbiamo in mano e quindi sopportare il peso di questa di quest’ansia più che giustificata. Qualunque forza politica dovrebbe interessarsi dei problemi della giustizia in maniera onesta e non interessata, ma al momento mi consta che l'unica realtà che abbia avuto il coraggio di farlo, nel nel caso di Beniamino, sia stato il Partito Radicale».