Con la cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro, a distanza di 30 anni dall’arresto del boss dei boss Totò Riina, si mette definitivamente fine all’era dei corleonesi e dei suoi storici alleati nello stragismo. Dopo piste bruciate, operazioni fallite a causa del mancato coordinamento tra magistrati, con la nuova procura di Palermo guidata da Maurizio De Lucia, i Ros hanno finalmente messo a termine l’obiettivo. Ora finalmente si potrà fare chiarezza su eventi ancora non del tutto chiariti. Il Dubbio, rileggendo attentamente le intercettazioni di Totò Riina quando era al 41 bis, ha scoperto che Matteo Messina Denaro avrebbe partecipato materialmente alla strage di Via D’Amelio dove morì Paolo Borsellino e la sua scorta. Quindi non solo fu – come attestato dalla recente sentenza del tribunale di Caltanissetta– tra i mandanti delle stragi, ma con molta probabilità anche tra gli esecutori della strage del 19 luglio 1992. D’altronde è stato accertato che fu tra i partecipanti alla missione romana per uccidere Giovanni Falcone, poi abortita perché Riina decise di attuare la strage di Capaci.

Ma perché Matteo Messina Denaro era profondamente legato ai corleonesi? ll rapporto tra la mafia corleonese e quella trapanese era così fiduciario che i Messina Denaro (Francesco Messina Denaro e il figlio Matteo, il superlatitante), fin dagli anni 80, erano i custodi di buona parte dei beni di Riina e di Provenzano. Ecco perché c’era un’assidua frequentazione da parte dei Corleonesi del territorio del trapanese, eletto da Riina, e dagli altri protagonisti della stagione stragista, come luogo sicuro anche dopo le stragi del ’92. Per “trapanesi”- si intendono i mandamenti mafiosi di Trapani, Alcamo, Mazara del Vallo e Castelvetrano. La geopolitica mafiosa dell’epoca è importante, per questo bisogna spiegarla. Totò Riina era il capo indiscusso, condivideva parte della sua fortissima influenza con Bernardo Provenzano. Quest’ultimo, a sua volta, aveva un forte potere in alcune zone della Sicilia. Riina, che aveva ovviamente piazzato le proprie pedine dappertutto, aveva la roccaforte non solo nel Palermitano, ma, appunto, anche nell’area di Trapani. I principali collaboratori escussi durante il processo dove vedeva imputato il superlatitante come tra i mandanti delle stragi, hanno delineato chiaramente che le maggiori azioni mafiose su ordine di Riina sono avvenute proprio in quel territorio. Ed è proprio quello trapanese che era, ed è, il feudo di Matteo Messina Denaro.

A testimoniare quanto, sin dagli anni '80, le "radici" dei corleonesi affondassero profondamente nell'intero territorio della provincia di Trapani basti ricordare il puntuale intervento di Riina nel settore degli appalti trapanesi e la creazione di una cassa comune per la spartizione dei relativi introiti. Sul punto, oltre a richiamarsi la puntuale ricostruzione di alcune vicende contenute nelle sentenze OMEGA e SELINUS emesse rispettivamente dalla Corte di Assise dì Trapani e dal Tribunale di Marsala, sono significative alcune dichiarazioni rese da Vincenzo Sinacori, reggente dal febbraio '92 del mandamento di Mazara del Vallo: «Con riferimento all’argomento appalti faccio presente che alla fine degli ottanta Riina aveva istituito una sorta di cassa comune nella quale confluiva la percentuale dello 0,80 % sull'ammontare degli appalti. Tale percentuale, calcolata sull’importo dell'appalto, veniva prelevata dal 2 o 3 percento di tangente applicata sull’ammontare complessivo dell’appalto». In sostanza emerge che c’era un rapporto bilaterale: i trapanesi fanno fortuna grazie a Riina e lui stesso deve la sua fortuna ai trapanesi. Riina sapeva benissimo che i mazaresi erano tra i privilegiati nella spartizione degli appalti. C ’era il famoso Mastro Ciccio, mafioso potentissimo della famiglia di Agate Mariano che si occupava in particolare della spartizione degli appalti. Mazara del Vallo, su questo, non è arrivata mai seconda e quindi faceva anche comodo ai mazaresi essere particolarmente corrivi alla politica di Rina. I beneficiari di questi grandi appalti, ovvero la politica del tavolino dove i grandi affari vengono gestiti dalle imprese del Nord, sono stati anche i mazaresi e gli uomini della provincia di Trapani.

Il tema di mafia e appalti appare centrale. Un dato appare certo. Paolo Borsellino, quando era procuratore a Marsala, stava indagando proprio su un filone degli appalti di Pantelleria. Non a caso volle avere copia del famoso dossier mafia-appalti, visionato e depositato da Giovanni Falcone prima che lasciasse la Procura di Palermo per andare a lavorare al ministero della Giustizia. Così come, non è un caso che in quel determinato periodo, quando Borsellino ottenne una quindicina di arresti solo per appalti di Pantelleria, ricevette minacce di morte. Poi si scoprì che Riina aveva organizzato un attentato contro di lui, poi rientrato a causa del rifiuto di due mafiosi mazaresi. Per questo furono fatti sparire.

Tanti sono gli elementi ancora da chiarire. A partire dalla sua presenza o meno su Via D’Amelio. Durante l’ora d’aria del 6 agosto 2013, Totò Riina indica più volte Matteo Messina Denaro come “l’uomo della luce”. Poi lo cita di nuovo su Via D’Amelio: «Minchia, cinquantasette giorni (i giorni che passano dalla strage di Capaci a quella di Via D’Amelio, ndr). Minchia, la notizia l’hanno trovata là, da dentro l’hanno sentita dire che domenica deve andare (Borsellino, ndr) da sua madre, deve venire da sua madre. Gli ho detto: allora preparati, aspettiamolo lì. A quello della luce… anche perché … sistemati, devono essere tutte le cose pronte. Tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: se serve mettigli qualche cento chili in più». Matteo Messina Denaro è stato finalmente arrestato. Ha sessant’anni, ma risulta gravemente malato di tumore. Per questo, sotto falso nome, frequentava la clinica privata di Palermo per sottoporsi a cicli di chemioterapia.