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L'arresto, la scarcerazione e il rimpatrio lampo del torturatore libico Osama Elmasry Njeem – noto nelle cronache come Almasri – rappresentano il sintomo più evidente del cortocircuito tra obblighi internazionali, interessi di sicurezza nazionale e rapporti di cooperazione costruiti su scala diplomatica e operativa con Tripoli.
Da una parte le indagini della magistratura che hanno coinvolto ministri dell'attuale governo; dall'altra la gestione politica e i vincoli pratici con le autorità libiche, nati attraverso il Memorandum d'intesa del 2 febbraio 2017 firmato dal governo di centrosinistra. È inevitabile pensare che il rimpatrio di Almasri sia legato al mantenimento di questi equilibri con un'area strategica come la Libia. A novembre 2025, salvo una discussione a sorpresa in Parlamento, come di consueto il Memorandum sarà rinnovato.
Le origini del Memorandum
Come detto, il Memorandum venne sottoscritto a Roma il 2 febbraio 2017. Il documento, reso pubblico in più versioni e traduzioni, stabilisce la cornice di collaborazione «nel campo dello sviluppo, del contrasto all'immigrazione illegale, del traffico di esseri umani, del contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere» tra la Repubblica italiana e la Libia. Il testo è chiaro sulla natura di intesa intergovernativa: impegni di assistenza tecnica, formazione, supporto logistico e progetti di sviluppo collegati alla gestione dei flussi migratori sono parte integrante dell'accordo.
La formula procedurale scelta nel testo è tanto semplice quanto determinante: durata triennale e rinnovo tacito salvo disdetta o modifica formale nei termini previsti. Non si tratta dunque di “rifare” l'accordo ogni tre anni con una nuova trattativa parlamentare: lo strumento prevede che, in assenza di una comunicazione di recesso, l'intesa prosegua automaticamente. Questo meccanismo ha trasformato il Memorandum da atto eccezionale a struttura stabile della politica migratoria italiana, con rinnovi che negli anni sono stati gestiti più come adempimenti amministrativi che come scelte politiche complessive sottoposte al Parlamento.
Il testo prevede un ventaglio di interventi tecnico-operativi rivolti alle autorità libiche: formazione degli addetti alla sicurezza delle coste, assistenza tecnica per il controllo dei confini marittimi e terrestri, fornitura di mezzi e attrezzature, sostegno a progetti di sviluppo nelle aree d'origine e collaborazione nelle procedure di rimpatrio e nel contrasto alle reti criminali. Nella pratica, queste previsioni si sono tradotte in progetti finanziati, corsi di formazione, motovedette e apparecchiature che hanno potenziato le capacità operative sul terreno. L'obiettivo ufficiale è ridurre le partenze irregolari e prevenire i naufragi; l'effetto concreto, secondo molte indagini sul campo, è stato un aumento delle intercettazioni in mare e il ritorno in Libia di migliaia di persone.
Per valutare l'effetto dell'intesa è indispensabile guardare ai dati raccolti dalle agenzie internazionali. Nel 2024, secondo l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), sono stati intercettati in mare e riportati in Libia oltre 16.000 migranti. Amnesty International nel suo rapporto 2024-2025 riporta che durante l'anno 21.762 persone rifugiate e migranti sono state intercettate in mare e rimandate con la forza in Libia. I dati indicano inoltre centinaia di vittime e dispersi nel Mediterraneo centrale.
Il Displacement Tracking Matrix dell'OIM identifica in centinaia di migliaia la popolazione migrante presente in Libia: l'analisi più recente registra oltre 700.000 persone presenti sul territorio libico. I centri di detenzione ufficiali ospitano migliaia di persone, con molte strutture caratterizzate da condizioni gravemente critiche e accesso limitato degli operatori umanitari. Questi numeri non sono astratti: corrispondono a persone detenute, vulnerabili, spesso senza protezione legale effettiva.
Organizzazioni internazionali e Ong hanno prodotto dossier sistematici che collegano gli strumenti di cooperazione (formazione, finanziamenti, mezzi) con il rafforzamento di pratiche che le stesse organizzazioni descrivono come violazioni diffuse dei diritti umani. Amnesty International, Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere e reti europee di giuristi documentano arresti arbitrari, torture, estorsioni e violenze sessuali nei centri di detenzione, oltre a condizioni igienico-sanitarie e logistiche inaccettabili.
L'accusa costante è che la cooperazione abbia reso più efficiente il ritorno forzato di persone in Libia, senza che sia stato garantito un sistema di monitoraggio indipendente e affidabile sul rispetto dei diritti fondamentali. Nel 2025 Amnesty ha pubblicato analisi sull'impunità e sulle condizioni nei centri, invitando i governi europei a sospendere ogni forma di cooperazione che renda possibili abusi.
Il quadro giudiziario
Il dossier giudiziario è complesso. La Corte europea dei diritti dell'uomo, con una pronuncia del 12 giugno 2025 su un caso relativo a un naufragio del 2017, ha escluso la responsabilità oggettiva dell'Italia per le azioni della Guardia costiera libica in quel caso specifico: una decisione che ha limitato la possibilità di estendere automaticamente la responsabilità dello Stato italiano a ogni episodio.
La sentenza non annulla però le indagini, le inchieste giornalistiche e i rapporti delle Ong che, nella loro totalità, continuano a descrivere una catena di eventi – intercettazioni, detenzioni, abusi – in cui il ruolo operativo e finanziario di paesi terzi è un elemento rilevante per la valutazione politica e morale.
La discussione non è solo tecnica. L'accordo produce due effetti sovrapposti e connessi: da un lato, costruisce capacità operative in Libia; dall'altro, sposta dal mare al territorio libico gran parte della gestione dei migranti. Quando quelle capacità finiscono nelle mani di attori poco controllabili – milizie, gruppi armati, reti locali con rapporti ambigui con i trafficanti – il risultato è prevedibile: efficacia nel controllare i flussi e fragilità nel rispetto dei diritti.
Le agenzie umanitarie hanno più volte chiesto monitoraggi indipendenti e condizioni chiare per qualsiasi forma di supporto. Le richieste sono rimaste, in molti casi, senza una risposta strutturale che imponga trasparenza e verifica puntuale degli interventi finanziati.
La modalità del rinnovo tacito evita un confronto parlamentare pieno sulla strategia. In passato il governo ha informato le Camere, ma senza che il tema si trasformasse in un voto con obbligo di rendicontazione pubblica e condivisione del dossier tecnico sui risultati concreti degli interventi. Il risultato è un'escalation tecnica: ogni tre anni la macchina amministrativa può proseguire senza che il Parlamento sia chiamato a misurare l'efficacia reale delle misure, l'entità dei finanziamenti e il rispetto delle condizioni di tutela richieste dagli organismi internazionali.
Il punto politico è semplice: una scelta di questa portata richiede trasparenza, bilancio dettagliato e controllo parlamentare. Senza questi strumenti, la proroga appare più come un automatismo che come una decisione ponderata.
La scelta sul rinnovo non è neutra. Un accordo che incide su diritti fondamentali dovrebbe passare attraverso procedure che consentano alla rappresentanza politica di esprimersi con cognizione di causa: audizioni tecniche, accesso ai dati dei progetti, valutazioni indipendenti sull'impatto. Il meccanismo attuale ha reso la materia sostanzialmente una decisione dell'Esecutivo, lasciando il Parlamento in posizione di informazione ma non di controllo vincolante. Per un Paese che normalmente pretende l'osservanza delle norme internazionali, la discrepanza è evidente.