Lo scrittore Francesco Leonetti, morto domenica scorsa a Milano a 93 anni, è stato molte cose insieme. Un narratore acuto e profondo, certamente, ma, su tutto, intellettuale marxista dalla vocazione, sì, poetica, tuttavia sostanzialmente rivoluzionaria, da tribuno giacobino o magari bolscevico sul treno dell’ottobre rosso. Addirittura qualcuno provò ad affibbiargli la fama segreta di “grande vecchio” dell’eversione.

Era nato a Cosenza nel 1924, aveva conosciuto i giorni della seconda guerra mondiale nella battaglia di Monte Cassino, perdendo lì, colpa d’essere rimasto fuori da un bunker nel pieno dei bombardamenti, buona parte dell’udito. Leonetti è stato poi, come molti ricorderanno, una “voce”, la sua voce inconfondibile: falsetto naturale, tra stridulo e arcaico, la voce del corvo che interpreta l’Ideologia, o forse il suo declino, in Uccellacci e uccellini dell’amico Pier Paolo Pasolini, con cui negli anni Cinquanta aveva dato vita alla rivista “Officina”: con loro Roberto Roversi, Franco Fortini, Gianni Scalia, Angelo Romanò. In verità, la febbre delle riviste, come laboratorio di elaborazione intellettuale e insieme politica, non ha mai abbandonato Francesco Leonetti, sarà il caso di rammentare l’avventura del “Menabò” nata innanzitutto dalle intuizioni di Elio Vittorini e Italo Calvino. Di Vittorini, Leonetti sarà “maestro di marxismo”, raccontandone i limiti e le difficoltà nell’assimilare i suoi classici: «Che fosse un autodidatta, figlio di ferrovieri, si vedeva dal modo in cui non riusciva ad affrontare testi come Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, abbiamo trascorso giorni interi appresso a quella lettura!».

Ancora per l’amico Pier Paolo, sarà Erode nel Vangelo secondo Matteo, il servo Laio nell’Edipo Re, il burattinaio in Cosa sono le nuvole. Del suo Erode cinematografico era sinceramente orgoglioso: «Il personaggio esprimeva tutto se stesso muovendo impercettibilmente le narici», raccontava, ossia «il meno è il più», come direbbe Mies van der Rohe, altro autore a lui ideologicamente caro.

I libri di Francesco Leonetti hanno avuto scarsa fortuna in termini di vendite, in compenso l’uomo era infaticabile come agitatore culturale, fino alla nascita di “Alfabeta”, cui molto teneva, dove sosteneva di incarnare l’anima appunto rivoluzionaria, pronta ad affermare le ragioni del “Moderno”, la dittatura dell’angolo retto contro ogni ghirigoro, bizzarro paradosso per un poeta dalle volute perfino barocche. Quanto a rivoluzione, va detto pure che Leonetti conquista la cabina di comando del movimento maoista “Servire il popolo”, depurandolo dallo stalinismo chiesastico del suo fondatore Aldo Brandirali, immaginando di farne uno strumento di lotta a sinistra del Pci a ridosso di ciò che sarà il movimento del ’ 77. Illusioni! Quell’anno spazzerà via ogni sogno di egemonia leninista, affermando semmai la fantasia mao- dadaista e situazionista.

Sebbene meridionale, il luogo d’elezione di Francesco Leonetti, dopo Bologna, sarà infine Milano, compresa l’Accademia di Brera che lo ha visto tra i suoi docenti di estetica e filosofia, sempre nel segno del Moderno affermato ancora una volta in nome delle avanguardie. Non per nulla, diversamente dai suoi primi compagni di strada, lo vedremo tra i fiancheggiatori organici della neoavanguardia raccolta sotto le insegne del Gruppo 63, c’è anche il suo nome sulla copertina disegnata a lapis dal pittore Gastone Novelli del volumemanifesto del movimento nato all’hotel “Zagarella” di Palermo.

L’indirizzo e la prospettiva teorica che gli erano prossimi indicano una “letteratura d’opposizione”, estranea al neorealismo e ai suoi ultimi epigoni. La vocazione verso lo sperimentalismo linguistico era già evidente nel suo secondo romanzo, Conoscenza per errore ( 1961) e poi con L’incompleto ( 1964). La collana dei “Gettoni” aveva però già visto il suo primo romanzo, Fumo, fuoco e dispetto ( 1956), che Vittorini definì «eterogeneo ed eccentrico, poliforme, praticamente barocco». Ma forse ciò che gli stava più a cuore erano i versi, Leonetti infatti esordisce diciottenne con Sopra una perduta estate ( 1942) cui seguirà La cantica ( 1959), ciò non gli impedirà di immaginare per sé anche gli strumenti della fenomenologia, della psicoanalisi, dell’antropologia e dello strutturalismo. Non per nulla con Vittorini saggiò la possibilità di una ciclopica rivista internazionale da chiamare “Gulliver”, con Enzensberger, Maurice Blanchot, Michel Butor tra le firme.

Nel 1968 per Leonetti sarà il momento di un’altra rivista dal titolo tautologicamente leninista, “Che fare”, accanto ad Arnaldo Pomodoro e a Roberto Di Marco, scrittore siciliano che lo affiancherà nell’avventura politica dell’Unione dei comunisti italiani divenuta nel frattempo Partito comunista ( marxista- leninista) italiano, poi, come si è già in parte detto, verranno gli ultimi fuochi con il mensile “Alfabeta”, ed è già il 1979, con lui ci sono Umberto Eco, Antonio Porta, Nanni Balestrini, Maria Corti, Pier Aldo Rovatti, Eleonora Fiorani. E un geniale art director, Gianni Sassi. La stagione dei “week- end postmoderni”, per utilizzare un’immagine di Pier Vittorio Tondelli, sarà avara di soddisfazioni per Francesco Leonetti, “Campo” è il titolo dell’ultima sua creatura periodica di agitazione sempre più poetica e assai meno militante, forse non era più tempo di battaglie.

«Questo il mio/ bellissimo potente piede; / rotto piagato appoggiato esposto. / Oh che puzzo! / Sono un perdente, / un ribelle infame al dio del denaro», così cantava ancora pochi anni fa.