Il bastone e la carota: così si potrebbe riassumere l’atteggiamento adottato dall’Esecutivo e dalla maggioranza nei confronti della magistratura. Basti guardare a quanto accadrà oggi in commissione Giustizia al Senato e quanto accaduto ieri nell’analogo organismo della Camera.

Stamattina a Palazzo Madama verrà votato favorevolmente il parere non vincolante, redatto dal senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, riguardante lo schema di decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, parere che contiene due “sollecitazioni” in vista dell’emanazione definitiva da parte del governo Meloni.

La prima chiede una valutazione non più a campione ma complessiva sulle cosiddette “pagelle” per le toghe ma soprattutto l’opportunità che l’Esecutivo valuti “la possibilità di prevedere l’eventuale introduzione di test psicoattitudinali per i candidati in ingresso nei ruoli della magistratura”. Sui due punti si è registrata una convergenza tra Fratelli d’Italia, FI e Lega, benché sui test psicoattitudinali per i magistrati il partito di Giorgia Meloni nelle scorse settimane avesse chiesto una riflessione. Sulla proposta si erano espressi subito a favore sia gli azzurri che il Carroccio.

Secondo il Partito democratico si tratta di una «provocazione, di berlusconiana memoria, che evoca l’idea che il problema della magistratura sia la sanità mentale dei giudici. Una vera sciocchezza, se non fosse che si tratta dell’ennesimo tentativo di delegittimazione della magistratura, secondo un disegno oramai esplicito volto a metterne a rischio indipendenza, autorevolezza, autonomia. Un clima inaccettabile che continueremo a denunciare e contrastare», hanno dichiarato i senatori Alfredo Bazoli, Franco Mirabelli, Anna Rossomando e Walter Verini.

Al di là della polemica tra maggioranza e opposizione, è noto infatti come il fondatore di Forza Italia avesse proposto i test già nel 2003, in piena sintonia con Francesco Cossiga. «All’Italia – ha commentato il segretario di Area Dg Giovanni Zaccaro – servono magistrati preparati, seri, onesti e che diano risposte di giustizia in tempi celeri. Queste mi paiono misure utili solo a cercare di trasformare un potere dello Stato, autonomo e indipendente dagli altri, in una burocrazia pronta ad assecondare i voleri delle maggioranze di turno».

Ma ora passiamo alla Camera. Ieri la deputata della Lega Simonetta Matone ha presentato, in qualità di relatrice, in ritardo di un mese, il parere non vincolante allo schema di decreto attuativo per la riforma dei fuori ruolo, altra articolazione della riforma. Pomo della discordia con l’opposizione, il dietrofront clamoroso sui magistrati “distaccati”. Infatti nel parere si legge che il taglio da 200 a 180 delle toghe dislocate nei ministeri e negli organi costituzionali entrerà in vigore al 31 dicembre 2025.

La motivazione? Evitare che, “per effetto della riduzione del numero di magistrati collocabili fuori ruolo, le amministrazioni titolari di interventi previsti nel Pnrr possano subire contrazioni nella disponibilità di personale proveniente dai ruoli delle magistrature e che, in generale, quella riduzione possa comportare effetti negativi per tutte le amministrazioni e gli organi costituzionali che si avvalgono di personale proveniente dai ruoli delle magistrature, prima che sia stato possibile adeguare l’organizzazione interna di quelle amministrazioni e di quegli organi alla riduzione del numero di magistrati collocabili fuori ruolo”.

Era nell’aria da settimane che fosse questo dietrofront a ritardare l’arrivo dei pareri: non solo c’era - ed è confermata da fonti parlamentari - una spaccatura nella maggioranza tra i favorevoli alla riduzione, ossia FI, e i contrari, Lega e Fratelli d’Italia ma, sempre secondo le stesse fonti, sarebbe intervenuto anche il Quirinale, che avrebbe sollevato preoccupazioni per un taglio dei magistrati alla presidenza della Repubblica e alla Corte costituzionale. Sul punto, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano avrebbe avuto la meglio sul guardasigilli Carlo Nordio.

Un parere del tutto simile a quello proposto da Matone a Montecitorio verrà presentato al Senato, domattina, dal relatore Rastrelli, di FdI. La decisione ha suscitato le dure proteste del responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, che ha dichiarato: «La legge Cartabia (cioè la delega che fa da cornice alla riforma, ndr) impone di ridurre il numero di magistrati fuori ruolo. Nordio prima fa scrivere la riforma dai fuori ruolo e li riduce di un nulla, da 200 a 180, ora fa dire alla maggioranza che i fuori ruolo sono essenziali per il Pnrr e rinvierà la riduzione al 2026. È una palese violazione della legge delega, che faremo rilevare in ogni sede (pur consapevoli che in ogni sede ci sono magistrati fuori ruolo)». E infatti la domanda è proprio questa: è fattibile, da regolamento, procrastinare di due anni l’attuazione di una legge delega?

Anche il Pd si è scagliato contro il governo, per voce dei deputati Debora Serracchiani e Federico Gianassi: «Dopo molte settimane di stallo e rinvii la maggioranza ha deciso di rimandare tutto di due anni: se ne riparla, forse, nel 2026. Si tratta dell’ennesima retromarcia della destra che si rifiuta di attuare la legge Cartabia sulla riduzione dei fuori ruolo. La decisione è clamorosa perché sconfessa quanto avevano sempre detto, ed è la dimostrazione delle loro divisioni che stanno bloccando il Paese».

Da segnalare che sempre ieri nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia di Montecitorio è stato incardinato il ddl Sicurezza, approvato in Cdm il 16 novembre. Tra le previsioni più discusse, quella che consente agli agenti di portare senza licenza un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio. Mentre al Senato è proseguito senza intoppi l’esame del ddl sul “sequestro di dispositivi informatici” con la presentazione dei 62 subemendamenti.