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Henry John Woodcock. Guido Salvini. Magistrati fuori dal coro. Che hanno tra l’altro il dono di una scrittura incisiva. E che non hanno “fatto carriera”, forse anche perché nel praticare la scrittura dicono spesso quello che pensano, e perciò “stonano” rispetto al resto dell’ordine giudiziario.
Di Salvini, da poco congedatosi dalla magistratura, gip a Milano per una vita, si è letto (anche sulle pagine del Dubbio, grazie a un intervento a sua firma) del suo rapporto controverso con le gerarchie togate. Di Woodcock si è spesso discusso per indagini tanto mediaticamente rumorose quanto non corroborate da sentenze di condanna. Ma intanto, del pm napoletano – un altro che, come il collega lombardo, è rimasto orgogliosamente “soldato semplice” senza mai chiedere o pretendere neppure una nomina da “aggiunto” – si scrive di ciò che affiora oltre il livello del visibile, ma certo non si esalta il lavoro quotidiano di contrasto alle varie forme di criminalità, impegno che in una Procura come Napoli non si riduce mai all’ordinaria amministrazione. Resagli giustizia sul piano strettamente professionale, è giusto rendere merito a Woodcock anche per aver confermato, con un articolo apparso ieri sul Fatto quotidiano, la propria onestà intellettuale. Già erano note le posizioni aperte e certo anticonformiste di Woodcock sulla separazione delle carriere, sull’effettiva ambivalenza del rapporto fra magistrati requirenti e colleghi giudicanti. Ma il pm partenopeo ieri si è limitato a notare quanto sia “esagerata” una battaglia politica dell’Anm contro il “divorzio” fra magistrati dell’accusa e giudici, considerato che «questo governo ha messo in cantiere ben tre riforme costituzionali (premierato, autonomia differenziata e separazione delle carriere)» e come sia «oggettivamente impossibile realizzarle tutte e tre entro il termine della legislatura». E poi, scrive Woodcock, nell’agenda dell’attuale Esecutivo, «la riforma relativa alla separazione delle carriere» non sembra «rappresenti la priorità». Analisi che è difficile non condividere. L’articolo suggerisce dunque di concentrarsi piuttosto contro le modifiche al codice penale che, in materia di intercettazioni, hanno introdotto regole garantiste. Si tratta del famoso decreto 105, rimodulato grazie agli emendamenti di Forza Italia: in proposito, questo giornale ha una posizione assai diversa da quella di Woodcock. Ma i rilievi del pm napoletano sui rischi legati alla norma che impedisce la “pesca a strascico” nelle intercettazioni sembrano materia troppo “limitata” per giustificare l’ampia riflessione proposta dal magistrato sul quotidiano di Marco Travaglio. La censura dei ritocchi al codice penale che sacrificherebbero «la lotta e il contrasto alla corruzione» paiono – sia detto con tutta la prudenza necessaria nell’interpretazione delle altrui intenzioni – più un pretesto per giustificare la prima parte dell’analisi, che ha come obiettivo l’incipiente «questione morale» interna alla magistratura.
Woodcock segnala un nesso fra l’indivualismo carrierista, che distrae anche dalle grandi questioni della giustizia, e una certa «evoluzione verso una magistratura sempre più burocratizzata». E qui siamo su un terreno che il Dubbio cerca di esplorare da anni, almeno da quando, nel 2017, ne parlò in un’intervista a un efficacissimo Piergiorgio Morosini, allora togato Csm e oggi presidente del Tribunale di Palermo. Colpisce, più di tutto, la franchezza con cui Woodcock si rivolge ai colleghi, per giunta dalle colonne di un giornale spesso schierato a difesa delle prerogative dei magistrati. Tanto più che a ben vedere, nell’analisi severa e irriverente del pm di Napoli, non può passare inosservato il passaggio iniziale tutt’altro che iconoclasta sugli ormai famigerati test psicoattitudinali. Addirittura, udite udite, Woodcock arriva a dire che al limite bisognerebbe prevedere quei controlli «in corso d’opera piuttosto che prima dell’immissione in ruolo, se è vero come è vero che il mestiere del magistrato rientra tra quelli logoranti».
Poi il pm partenopeo stempera l’osservazione con il richiamo ai controlli interni grazie ai quali già sarebbe possibile «la sospensione e anche la destituzione di magistrati anche in caso di patologie psicoattitudinali che li rendano inidonei al servizio». Ma intanto l’ammissione che chi esercita la delicatissima funzione di giudice o di pubblico ministero può, eccome se può, cadere in momenti di affanno, e che la tenuta psicologica di un magistrato può non essere sempre d’acciaio, è una grande verità, un tabù infranto, dinanzi al quale non ci si può che togliere il cappello. Si riuscisse a ricondurre in questi termini il dibattito sui controlli psicoattitudinali, e cioè a riflettere su uno strumento che riguarda la delicatezza della funzione, anziché sul rischio di insinuare nell’opinione pubblica l’equazione “magistrato uguale squilibrato”, ecco, se passasse il messaggio seppure un po’ mascherato dell’articolo di Woodcock, già saremmo un bel pezzo più avanti.