Vomero, quartiere di Napoli. I napoletani li considerano i “piani alti”, per topografia e prestigio sociale. Ma Luigi de Magistris li ha scalati al contrario, dalla collinetta borghese al ventre “basso” della città dove l’ex magistrato ha trovato la sua cifra politica. Perché l’ex pm è sì un uomo delle istituzioni. Meglio: uno che ha passato «trent’anni di vita in prima linea nelle istituzioni».

Ma ora è soprattutto l’ex sindaco con la bandana arancione. Tolta la quale, de Magistris resta un pirata in camicia. Cioè un ragazzo del Vomero che parla bene anche col popolo. «È diventato il mio elemento di forza. Per quanto fossi un magistrato democratico, umile, non altezzoso, non avevo consuetudine nel rapporto con la folla. Fare il sindaco di Napoli mi ha permesso di crescere, soprattutto nella dimensione umana: si è consolidata molto la mia anima popolare, più che quella medio-borghese da cui provengo».

Ecco Dema, Gigino o’ sentimentale. Lo riconosciamo subito al tavolino del bar, quando i passanti si avvicinano per una rapida stretta di mano. Sono loro - dice - a fargli venire la voglia di tornare a Palazzo San Giacomo per il tris. Un’ipotesi che il primo cittadino più longevo di Napoli considera più che concreta. Non fosse altro per scippare la città all’attuale sindaco Gaetano Manfredi, che invece «un’idea di città non ce l’ha». «A me hanno dato una 126 da rottamare, quando da Napoli tutti scappavano. Ora è una Ferrari che campa di rendita, consegnata nelle mani di Manfredi con il pieno di benzina». Non le Europee, dunque, non Santoro. Il politico «movimentista» ha in mente dell’altro dopo l’addio alla guida di Unione Popolare: il Regno di Napoli, che riprenderselo sarebbe un «gesto d’amore».

E intanto? «Il tema della pace mi accompagna e mi sono esposto in maniera anche molto forte e coerente sia sull’Ucraina che sulla Palestina, ma ho scelto in questo momento di lasciare il ruolo di portavoce per assumere un ruolo “terzo” e provare ad unire mondi spesso separati». Perché bisogna sottolineare che de Magistris si butta anche nell’editoria e nel “teatro civile”, per «mettere a disposizione della collettività la mia esperienza». Coi dibattiti, i libri, eccetera. Lui la definisce «pedagogia della resistenza». Fuori dagli schemi, perché i partiti non gli piacciono. «Sono un autonomista convinto». Anche se parla bene con i centri sociali e l’attivismo sul territorio. Si dice «un libertario, uno che sa organizzare». E se qualcuno a questo punto si sente confuso sulle due anime dell’amministratore e del pm non trascuri la storia fin dall’inizio.

De Magistris è magistrato da quattro generazioni, forse il figlio coprirà la quinta. Il papà non l’ha spinto, ma calamitato nel suo mondo. «Mi ha trasmesso l’eleganza». Sua mamma gli ha cucito la prima toga indossata quando ha passato il concorso. Il sogno, l’unico vero sogno che gli faccia ancora brillare gli occhi. Con una smorfia di nostalgia che gli si ripresenta sulla faccia ogni volta che ci pensa. La toga gliel’hanno voluta scippare, racconta, con tutta la guerra tra procure che ha preceduto il ciclone Palamara. Per l’inchiesta Poseidone e Why not.

Lasciare il Palazzo di Giustizia è stata una «decisione spIntanea», mezza obbligata e sicuramente sofferta. «Non sarei entrato in politica», ripete. E pensa che tra politica e magistratura non ci possa essere alcuna coincidenza. Tanto da schivare in tutti i modi le correnti come l’ex collega Nicola Gratteri. I due ora condividono Napoli e prima la Calabria, Catanzaro, dove de Magistris è stato sostituto procuratore prima che lo trasferissero a Napoli nelle funzioni di giudice. «Un trauma. Mi avevano tolto la possibilità di fare il pubblico ministero. La distruzione di un sogno, il primo amore. L’ingiustizia è talmente grave che questa roba fa male, a distanza di anni».

De Magistris la giustizia l’ha conosciuta da tutte le angolazioni, nei fascicoli che ha imbastito e in quelli che ha subito. Ha pagato il prezzo economico e «soprattutto umano» del sistema giustizia. E certo, il magistrato aveva già le sue idee, ma le ha tirate fuori dal cassetto dove ha riposto la toga. Riecco la smorfia. «Se tornassi indietro rifarei esattamente la stessa cosa. Ma è ovvio, mi manca quel lavoro. Oggi potrei essere tentato di dire “mannaggia!”. Visto che il tempo è stato galantuomo...». Il tempo, dice, gli ha dato ragione. E quindi si può anche voltare pagina.

Lei si sente più Castro, Che Guevara o Masaniello? «Assolutamente Che Guevara». Pare che ne avesse anche un poster in camera da ragazzo, come racconta il fratello minore Claudio, che insieme invece fanno “i fratelli Castro di Napoli” (copyright Carmelo Caruso su Panorama, agosto 2016). «E dico una cosa in più: quando facevo il pubblico ministero, ne tenevo uno dietro alla porta del mio ufficio in procura, di nascosto, però. Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza: nell’ufficio di sindaco avevo un Mattarella e una quindicina di Che Guevara». In tutti i formati, insieme ai corni, cornetti, e l’agenda rossa «autografata con una dedica straordinaria da Salvatore Borsellino».

Gigino ‘a manetta è acqua passata. E anzi de Magistris questo soprannome lo contesta. «Si vada ad analizzare con precisione i miei procedimenti e si vedrà che ho usato pochissimo la custodia cautelare. Sono stato molto rigoroso nell’applicare i principi di uguaglianza dei cittadini in fronte a legge e di obbligatorietà dell’azione penale». Si ricasca a parlare di giustizia. Accompagnata da una bella spremuta d’arancia, la stessa con cui de Magistris all’epoca aveva conquistato sua moglie. Lei avvocato, lui tra i pochi a non tirarsela, in quei corridoi del tribunale. E ora stanno insieme da trent’anni. «La cosa che mi ha sempre colpito molto del rapporto tra me e mia moglie è la condivisione degli ideali. È stato il vero cemento del nostro rapporto». Poi ci sono due figli maschi. «Ho un forte senso di colpa per non aver dedicato loro tempo a sufficienza». E un cane, che ti cambia sempre la vita.

De Magistris sogna la natura e ha il dono dell’empatia. Il suo pregio? Ovviamente: «L’onestà». Ha il senso delle responsabilità. Ma «siccome i normali li fanno uscire dal sistema» pratica l’eversione. «Purché pacifista e costituzionalmente orientata». Non è un fatalista, non come possono esserlo i napoletani, resta un «credente anarchico». Non prega, ma si riconosce nella storia del processo a Gesù. E questo già la dice lunga.

Depenalizzerebbe le droghe leggere, allargherebbe i diritti, come ha fatto per le unioni civili a Napoli. Gli piace la festa, anche se esige le regole. Invoca ragionevolezza quando si tratta di interpretare la legge, soprattutto con l’amico Mimmo Lucano. I buoni ideali vengono prima, la connessione con il popolo. «Che non è populismo come voi giornalisti intendete». De Magistris è fatto così. A metà tra una strofa di Pino Daniele e un articolo del codice penale. Si porta nel cuore Massimo Troisi e il Maradona degli anni ‘80. Tanto che se ora gli vai a dire che l’ultimo scudetto è stato un riscatto per la città, lui ti risponde che il “pallone” ha cambiato la città, sì, ma nell’87. L’anno scorso Napoli si era già riscattata - dice - con la sua amministrazione. Ma lei è un tifoso sfrenato? «Sono tifoso, non malato». Ma allora lo vede che sotto sotto è un moderato? «Mi definisco un rivoluzionario, sinceramente».