Ad essere in crisi è l’antipolitica del “né di destra, né di sinistra”, ma anche ai tempi del draghismo proliferano i partiti che accarezzano paure e frustrazioni della gente

Ma il populismo, incubo per un decennio delle istituzioni e degli establishment, è scomparso, defunto e cancellato, o ha solo cambiato abito? Provare a dare risposta a un quesito in realtà centrale per interpretare il quadro politico dell'oggi è reso difficile dall'indeterminatezza del termine. La sprezzante paroletta, “populismo”, è stata infatti adoperata con dovizia ma senza mai precisarne contenuti e contorni: un insulto buono per molte stagioni se non proprio per tutte.

Se per “populismo” si intende una protesta mossa contro i politici in sé più che contro le loro politiche, una ribellione confusa e plebea contro “il ceto politico corrotto”, insomma quella spinta diffusa che si traduceva nello slogan apolitico e antipolitico “onestà”, è probabile che sia davvero finita in cantina. È una pulsione non spenta ma non più in grado di tradursi in offerta politica: il disastro dei 5S, la verifica di quanto poco spessore ci fosse dietro quella bandiera, chiude i giochi per lungo tempo. Altrettanto desueta è quella interpretazione del populismo che lo voleva “né di destra né di sinistra”, capace cioè di pescare consensi nel malcontento popolare con proposte anche di segno opposto purché capaci di rivolgersi alla pancia del Paese. Era la carta sulla quale puntavano i 5S e anche molto la Lega di Salvini ma l'arma è oggi spuntata. È vero che distinzione destra- sinistra si è riarticolata lungo una faglia molto diversa da quella del passato, essenzialmente tracciata dai diritti civili, al punto che oggi un convinto seguace di Milton Friedman sinceramente schierato a favore dei diritti civili avrebbe ottime possibilità di ritrovarsi candidato in una lista di centrosinistra, ma la favola del “né di destra né di sinistra” ha comunque perso molto del proprio appeal.

Se però per “populismo” si intende una politica che mira a far leva sul disagio, puntando sulla protesta ma senza proposta, che cerca e trova il consenso vellicando paure e frustrazioni, centrata sul rapporto diretto tra il capo e la folla senza vera intermediazione politica, il quadro si rovescia. Quel populismo è vivo e vegeto. Si incarna perfettamente nel partito di Giorgia Meloni, che segna tuttavia davvero un passaggio di fase importante. Quello di FdI è un populismo compiutamente e dichiaratamente di destra, e si tratta di una demarcazione profonda. È un partito che scommette sulla retorica dell'antico quanto e più che su quella del nuovo: l'ultimo a mantenere nel logo un richiamo fiammeggiante alla prima Repubblica di cui il Msi fu nonostante tutto parte. Ed è, infine, un populismo alla Orban più che alla Beppe Grillo, che non contrappone la piazza alle istituzioni ma si prefigge la colonizzazione dall'interno di queste ultime.

A differenza di Salvini, e almeno all'inizio in funzione anti Salvini, il populismo di destra di Giorgia Meloni ha goduto di ottima stampa ed è stato accreditato dai suoi stessi rivali. Con l'avvicinarsi delle elezioni le cose stanno cambiando ma sempre con felpatezza sconosciuta nei confronti del Cavaliere a suo tempo e poi del Capitano: perché la leader di FdI ha capito per tempo l'immensa rendita di posizione e il notevole acquisto in termini di credibilità legati a uno schieramento atlantista molto più drastico di quelli degli altri leader “populisiti”, Salvini e Conte, Parlare di minaccia populista sventata sembra dunque almeno molto prematuro, ma molto dipenderà dagli sviluppi della situazione internazionale. Quando ci si scaglia contro il populismo si tende infatti spesso a dimenticare che si tratta in buona parte di un sintomo, non del virus in sé. Il declino del principale cavallo di battaglia populista, l'antieuropeismo, non deriva da qualche conversione sulla via di Bruxelles ma dal fatto che nel biennio del Covid Bruxelles e Francoforte hanno fatto politiche opposte a quelle precedenti. Se la Ue proseguirà su quella via il bacino populista sarà se non prosciugato certo molto meno abbondante. In caso contrario la bandiera della guerra contro i poteri forti in nome della sovranità nazionale tornerà a sventolare e a brandirla saranno proprio Salvini e Meloni, a braccetto.

La stella di Draghi, poi, brilla in conseguenza di un capitale di fiducia anche popolare di cui l'uomo gode come garante della possibilità di uscire a gonfie vele dalla crisi Covid. Se in conseguenza della crisi energetica, dell'inflazione e della guerra quella speranza sarà delusa ad avvantaggiarsene non potranno che essere le forze populiste che trarranno vantaggio anche dal ruolo mai così negletto nel quale il governo Draghi ha chiuso sia il Parlamento che i partiti. Insomma la partita è ancora del tutto aperta e pensare che le carte vincenti siano tutte nelle mani degli “antipopulisti” più che un'analisi lucida è un wishful thinking.