Grazie per l’invito a parlare, non per la prima volta, di fronte al congresso delle Camere Penali. E di fronte a una platea così prestigiosa con la presenza di alte cariche politiche e istituzionali a cui rivolgo il mio saluto.

Il tema del processo penale sta da sempre, come interesse e impegno, alla radice della mia persona.

Lo devo a mio padre, avvocato penalista repubblicano, che mi ha coinvolto fin dall'adolescenza dentro il mondo della giustizia.

E aggiungo che a quattordici anni mi iscrissi al Partito Comunista Italiano, non certo per una lettura dei testi sacri, di Marx, di Gramsci e tantomeno di Togliatti.

Ma perché allora mi sembrò, quasi occasionalmente, che quel partito fosse uno strumento per affrontare il sentimento di dolore, di sofferenza che mi procurava vedere nel mondo, troppo spesso, la forza “offendere” la debolezza.

Una debolezza priva della possibilità di replica. Intrappolata in una condizione di impotenza.

La professione di mio padre, a cui ho voluto molto bene, libertario e profondamente umano, si mischiò, così, con le mie scelte di vita ideali e politiche.

Egli amava difendere gli imputati, soffriva il ruolo di parte civile, il suo habitat privilegiato era la corte d’assise, lo strumento, l’arringa dove si può arrivare nelle più nascoste profondità dell’imputato come persona; trasformandosi in “palombari” dell’animo umano.

È la passione per le sorti di chi ha affidato la sua vita nelle tue mani. Quella passione che ho visto, fin da ragazzino, in una generazione di grandi avvocati che ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo. Bruno Cassinelli, Annibale Angelucci, De Marsico e i loro discepoli di allora. Nicola Madia, al quale cambiò la vita la sentenza di condanna di Raoul Ghiani e De Cataldo, Pannain, Sotgiu, Enzo Trapani e tanti altri.

Vedete, per me la parola garantismo è legata alla consapevolezza dell’enorme sproporzione di forza tra l’imputato (se non supportato da organizzazioni mafiose e terroristiche) e tutto lo stato, i suoi poteri e la sua rappresentatività.

L’imputato che nel mentre è indagato e poi sottoposto a giudizio, è come sospeso dal suo status naturale. Varca un confine che lo separa dai riferimenti che aveva costruito per vivere al meglio.

È nudo. Entra in una dimensione di incertezza, fragilità e casualità.

Montesquieu ha definito “terribile” l’esercizio della giustizia.

Non c’è giustizia certa, prevedibile, al riparo della volubilità di chi la esercita.

La giustizia è relativa. È diversa tra paese e paese. Da qualche parte l’omosessualità vale la pena di morte. O la violenza sulle donne è un comportamento ammissibile. Il furto, la corruzione, l’omicidio, sono sottoposti alla moralità delle specifiche storie, culture e diverse tradizioni.

Ricordo una frase che mi diceva spesso mio padre, quando entravamo nelle austere e solenni stanze del vecchio palazzo di giustizia a proposito degli imputati: “Vedi una sorta di pietà umana è la premessa di ogni buon avvocato. Perché a me tocca difendere un possibile colpevole che è stato acciuffato. Un possibile colpevole sfortunato, perché fa parte della minoranza che paga per la stragrande maggioranza di colpevoli a cui la giustizia non è stata capace di arrivare”.

L’avvocato lo aiuta nel processo, che essendo maneggiato dagli esseri umani porta con sé le loro imperfezioni. Lo deve accompagnare attraverso le tempeste determinate dall'opinione pubblica. Lo deve guidare tra le indagini, gli umori dei magistrati, i ricordi dei testimoni, le estrapolazioni di conversazioni fuori contesto che non potranno mai ricomporre la verità di ciò che è accaduto, ma spicchi di verità che possono alla fine costituire, messi insieme, l’errore giudiziario. Questo accompagnare dell’avvocato è decisivo nel tunnel dell’attesa, della paura, di quella giustizia che può avere degli aspetti anche paradossali descritti nel suo magnifico libro, appunto “Giustizia”, di Dürrenmatt.

Dunque, il garantismo, se è questo il quadro, è l’esercizio del dubbio, lo sforzo di rendere il più possibile limpido l’iter processuale, e il più possibile breve la situazione transitoria dove degli esseri umani hanno “sospeso” la loro vita.

Per questo è decisivo limitare facili carcerazioni, variegare gli strumenti per scontare la pena, come tentò di fare il ministro Orlando. Riequilibrare la lunghissima fase delle indagini con il contraddittorio in aula, dove tutte le parti possono far valere le proprie ragioni. Rendere i tempi della prescrizione compatibili ai tempi di vita delle persone e indurre anche l’avvocatura a non utilizzarli in modo furbesco.

Non intervenire su questo significa sottoporre i presunti colpevoli ad una procedura torturante. È non è affatto vero che tutto ciò sia una questione minoritaria. Al di là delle leggi, ci sono, tuttavia, regole di condotta che dovrebbero presiedere nella coscienza di tutti i magistrati. Che hanno nelle loro mani, come i medici, la vita degli esseri umani.

Ho detto: la consapevolezza del carattere relativo della verità, la possibilità dell’errore, la necessità dell’ascolto di tutte le parti in causa, l’indifferenza, vale a dire l'oggettivazione del caso da affrontare, il carattere specifico, singolare di ogni responsabilità, rifuggendo le caotiche ammucchiate di responsabilità che poi spesso si sgonfiano, il rispetto e la fiducia che si devono suscitare tra tutti i soggetti coinvolti, la riservatezza, il riserbo e la sicura distanza da ogni strumentalizzazione politica. La magistratura italiana ha avuto meriti immensi. Ha difeso la repubblica nei momenti più difficili del suo sviluppo e della sua crescita. Tuttavia, i comportamenti che ho prima accennato non sono generalmente garantiti.

Non entro sui tempi, i modi, le reciproche polemiche che attualmente condizionano il dibattito politico su queste questioni decisive.

Mi permetto solo di osservare che se la bilancia ancora pende comunque dalla parte della forza inquisitoria, che tutto ciò rappresenta un equilibrio e da me visto con favore. Se la separazione delle carriere è un segnale verso la terzietà del giudizio per me ben venga. Se c’è l’imputato e due giudici è meglio che i giudici non si sommino ma, al contrario, si distinguano. Non due contro uno. Ma uno e uno. E se c’è un modo per evitare che qualche tipo di sentenza sia al riparo, di reciproche convenienze, di scambio di favori, di un clima politicamente intossicato ben venga il superamento delle correnti di potere nella magistratura, affidandosi a altre vie per la costituzione del Csm. Ed evitando che i Pm rispondessero al potere politico che in quel momento comandava.

Un ultimo pensiero. Non mi piace lo sforzo garantista nel processo e nelle indagini dell’attuale governo, accompagnato da una serie di provvedimenti che inaspriscono le pene, immaginano nuovi profili di reato e limitano le libertà di manifestare ed esprimere le proprie idee. Non mi piace quell’idea che una volta condannato, l’imputato merita l’inferno delle attuali carceri italiane. Su questo non si è fatto nulla, su questo si sono compiuti passi illiberali.

La pena detentiva è già il massimo che un essere umano possa sopportare. È giusta se corrisponde ad un reato. La pena detentiva è l’imposizione di un periodo più o meno lungo di “non vita”. Cosa ci deve essere di più rispetto a questo. Cosa sono le celle sovraffollate e fredde o terribilmente calde? I servizi igienici indecenti, i topi e le blatte, la noia forzata che porta a tanti suicidi? Sembra a me il modo di concentrare sugli emarginati e i deboli del mondo, tutto il marcio che cammina, invece, regolarmente e indisturbato nelle società in cui viviamo.

Ecco, la giustizia e le carceri sono lo specchio della civiltà di un popolo. La misurano.

La politica, la magistratura, l’avvocatura, si comportino all’altezza di questa enorme responsabilità.