Hanno vissuto per 14 anni un calvario giudiziario per poi giungere, pochi giorni fa, a una assoluzione in Appello perché il “fatto non costituisce reato”. È la storia, a dir poco paradossale, del presunto scandalo ai Servizi sociali del Comune di Catania che scoppiò nel 2010, quando alcune delle persone sottoposte ad indagine per peculato dal lontano 2006 vennero arrestate e interdette perfino dalla potestà genitoriale. Secondo la Procura 13 dipendenti comunali (Maria Brunetto, Maria Teresa Cavalieri, Tiziana Ciaramidaro, Vincenza Lipari, Rosario Marino, Carmela Merola, Giuseppa Musumeci, Carmelo Reale, Lucia Rosto, Alba Rosa Vitali, Giuseppina De Martino, Rita Maria Labisi e Antonella Bonanno) avrebbero ricevuto illecitamente alcune somme di denaro, come indennità ufficiale, per partecipare ad alcune commissioni ai Servizi sociali del comune etneo.

Commissioni disposte per il distretto sanitario dal dirigente del settore, Ubaldo Camerini, il cui reato è oggi prescritto. Secondo il magistrato inquirente, queste somme provenienti da un finanziamento regionale anziché essere utilizzate per progetti a favore di persone svantaggiate sarebbero finite nelle tasche dei dipendenti infedeli sotto forma di rimborso. I giudici, però, hanno ribaltato questa tesi, riconoscendo il corretto operato di queste persone che hanno dovuto attendere tantissimi anni prima di venire fuori da un vero incubo giudiziario. Nel corso delle indagini sarebbero emersi numerosi particolari, ma alla fine assolutamente non consistenti ai fini della dimostrazione del reato.

Tanto che ad un certo punto il pm ha chiesto al gip l’archiviazione del procedimento. Il giudice ha scelto, però, l’imputazione coatta. In primo grado la sentenza di colpevolezza per tutti i dipendenti prevedeva anche delle pene accessorie immediatamente esecutive. E difatti tutti i soggetti condannati per peculato furono interdetti dai pubblici uffici.

Con la sentenza, pronunciata nel 2019, i dipendenti furono anche sospesi dal servizio e dallo stipendio dal Comune. Adesso l’assoluzione in Appello ristabilisce i fatti e dispone anche la restituzione ai dipendenti sospesi dalle mansioni lavorative degli arretrati degli stipendi, dal 2019 ad oggi, con relative ricostruzioni di carriere e l’aggiornamento delle posizioni previdenziali. Un bel danno anche per le casse del Comune etneo. «Si tratta di una vicenda inverosimile - commenta al termine della lettura in aula della sentenza l’avvocato Antonio Fiumefreddo, legale di alcuni ex imputati -. Al termine di un vero calvario giudiziario la Corte d’appello è entrata nel merito e addirittura ha riconosciuto che queste persone non andavano condannate perché il fatto non costituisce reato. Inoltre va rilevato che la procura ad un certo punto aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo, ma il gip ha disposto l’imputazione coatta. Successivamente fu proprio la stessa procura a sostenere la tesi della colpevolezza. Insomma una confusione e una incertezza incredibili che hanno coinvolto persone che sono state costrette a mettersi in pensione anzitempo oppure hanno vissuto questi ultimi 5 anni anche con difficoltà economiche. È inoltre inaudito che un processo simile sia durato oltre 14 anni».

L’avvocato Fiumefreddo ha infine rilevato che la difesa in questo processo ha fatto di tutto per evitare la prescrizione richiedendo fortemente sia in primo che in secondo grado, di arrivare a sentenza. «Una accusa oggettivamente debole - ha spiegato il legale -, come si è rivelata in questo procedimento, non può essere definita con una prescrizione che non è giustizia. Alla fine la giustizia ha prevalso, ma dopo ben 14 anni e ben 18 dall’accertamento dei fatti con l’avvio delle indagini».