L’imparzialità per il magistrato è un “prerequisito” irrinunciabile. E, come sottolineato più volte dal capo dello Stato, oltre ad essere imparziale la toga deve però anche apparire tale. L’imparzialità, infatti, è il valore cardine cui tende anche la garanzia di autonomia e indipendenza che risulta centrale per la legittimazione dell’attività giurisdizionale. Su come conciliare dunque l’imprescindibile imparzialità con l’utilizzo dei social network da parte di pm e giudici, il Consiglio superiore della magistratura ha organizzato questa settimana un seminario a Palazzo Bachelet a cui hanno partecipato magistrati, accademici, giuristi e giornalisti. «Viviamo ormai da tempo nell’era della comunicazione mediata dal computer», ha affermato il vice presidente Fabio Pinelli, ricordando che «la magistratura deve adeguarsi a questa cultura digitale che si sovrappone e si integra ai linguaggi già esistenti diventando essa stessa un linguaggio». Per il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli, «anche nell’uso dei social l’alternativa è tra la ricerca dell’autorevolezza o la ricerca del consenso: la prima è l’unica che può essere imboccata da un magistrato e un giornalista, in quanto per entrambi non è possibile ammettere una distinzione tra profilo professionale e personale».

«Il magistrato è titolare dei medesimi diritti che sono riconosciuti a tutti i cittadini. Tra questi diritti vi è la libertà di manifestazione del pensiero. Negarla al magistrato sarebbe contrario ai principi dello Stato di diritto», ha puntualizzato il professore di diritto costituzionale Massimo Luciani. «La delicatezza della funzione - ha aggiunto impone al magistrato di esercitare quel diritto di libertà con lo stile, la prudenza e l’intelligenza che devono essere propri di chi è gravato da compiti di grandissima importanza».

La prima presidente della Cassazione Margherita Cassano da parte sua ha invitato a riflettere sui limiti ma anche sui doveri di comunicare la giustizia per garantire la trasparenza e la comprensibilità dell’azione giudiziaria, in linea con una moderna concezione della responsabilità dei magistrati: «Serve uno sforzo di ciascuno di noi nell’uso di un linguaggio diverso all’interno dei nostri provvedimenti: un linguaggio che rifugga, laddove possibile, da inutili tecnicismi e sfoggi di erudizione, semplificando senza banalizzare. È questa la nuova prospettiva

culturale che ci viene richiesta, quella del dovere etico di comunicare nel rispetto delle regole processuali». Il procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, titolare dell’azione disciplinare, ha sottolineato i limiti che si impongono ai magistrati nella comunicazione extra istituzionale, evidenziando l’importanza di agire sulla formazione e sull’incremento di una solida cultura della giurisdizione, invitando ad «abbandonare la tentazione dell’autoreferenzialità, riscoprire il significato della funzione come dovere, rafforzare il sistema deontologico e di valutazione della professionalità».

Secondo il presidente del Consiglio di Stato Luigi Maruotti, «i magistrati sono titolari dei diritti fondamentali della libertà d’espressione e della libera manifestazione del pensiero, ma sono titolari anche di doveri fondamentali, connessi alle regole sul giusto processo. Vanno evitati quei comportamenti sui social che possano far dubitare della loro imparzialità». Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, differentemente dal Csm, già dal 2021 ha approvato una delibera sulla “comunicazione e i social” con l’obiettivo di prevenire comportamenti inappropriati, attraverso la formazione dei magistrati. Il consigliere laico Michele Papa si è invece concentrato sull’importanza dei codici etici e le linee guida in questo delicato ambito. Concetti che sono stati ripresi durante la tavola rotonda a cui hanno partecipato il vicedirettore dell’Agenzia per la cybersecurity Nunzia Ciardi, l’ex presidente del Cnf Andrea Mascherin, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia e la professoressa di diritto del lavoro dell’Università di Bologna Patrizia Tullini. Il seminario si è concluso con la relazione del presidente emerito della Corte costituzionale e già ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick. Piccola notazione a margine: tutti i relatori hanno dichiarato di non avere un profilo social e, come nel caso di Luciani, di non sentirne affatto la mancanza. E se fosse questa la soluzione?