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POLITICAMENTE SCORRETTO
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Gli Italiani, diceva Leo Longanesi, «sono estremisti… per prudenza». Non sempre per la verità. E non tutti. Oggi gli italiani che hanno qualcosa da perdere qualora non si trovino nel posto giusto al momento giusto, non sono certo estremisti ma sicuramente stanno a sinistra: democratica, s’intende. Imprenditori, avvocati, notai, editori, magistrati, alti funzionari, ufficiali superiori, artisti, uomini dello spettacolo non possono permettersi il lusso di venir considerati retrogradi o reazionari: ne va non solo della loro considerazione sociale ma, altresì, degli affari che potrebbero fare con quelli che contano e dei favori che ne potrebbero ricevere. Provate a dire in un salotto alto borghese o in un circolo culturale o d’altro genere - ad es. in un golf club o in uno yacht club - che Che Guevara era un fanatico sanguinario e Salvador Allende uno statista che voleva imporre riforme radicali al Cile senza avere nessuna maggioranza parlamentare: tutti vi vedranno come un fascista o, nel migliore dei casi, come un eccentrico provocatore, anche se i vostri giudizi sono fondati su studi storici e analisi circostanziate. In ogni caso, difficilmente sarete invitati una seconda volta.
Un tempo, nell’Italia di Gian Burrasca e di Policarpo de’ Tappetti, l’ostracismo sarebbe stato inflitto a chi avesse osato, in una casa della buona, rispettabile, borghesia fare l’apologia di Filippo Turati o di Antonio Gramsci. I tempi sono cambiati ma la sindrome conformista rimane la stessa. E non si tratta solo dei ceti borghesi alti o medio- alti. Interi settori sociali, ad es. il pubblico impiego, fanno parte del gregge politicamente corretto, pronto a scandalizzarsi dinanzi a ogni opinione controcorrente. Mi riferisco, soprattutto, al mondo della scuola, dalle elementari all’Università. Non mi è mai capitato di incontrare un maestro o un professore di scuola media primaria o secondaria che votasse per Forza Itali: se anche ce ne fosse qualcuno, difficilmente farebbe outing ideologico. Le devastazioni sessantottesche hanno sconvolto il terreno della Geselligkeit, o sociabilità. Nel mio vecchio liceo - un classico liceo di provincia - c’erano professori di destra (‘ nostalgici’ di ‘ quando c’era Lui’) e di sinistra e tra noi studenti le opinioni politiche circolavano le più diverse: molti erano naturaliter democristiani, alcuni simpatizzavano per il Msi, pochi ( ed io tra questi) dicevano di essere socialisti o comunisti. Quando qualche volta intervenivo nell’ora di religione, in dissenso con l’insegnante ( una bravissima persona titolare di una parrocchia campestre), mi sentivo dire: «E’ la voce dell’Avanti!». Nelle scuole d’antan, luoghi di bieca repressione e di indottrinamento coatto, si poteva essere conservatori o progressisti, credenti o atei: gli schieramenti ideologici contavano poco e non imbarazzavano nessuno. Era la sufficienza in greco o in matematica a preoccupare seriamente alunni e genitori ( questi ultimi regolarmente dalla parte dei professori, a differenza dei genitori di oggi sindacalisti dei figli contro presidi e insegnanti). Non parliamo delle facoltà letterarie dove presentarsi a lezione o nei Consigli di Facoltà con Il Giornale sottobraccio poteva essere un gesto provocatorio: una tentazione alla quale non resistevo pur se votavo per Craxi. Questa “cultura della resa” come la chiamò la buonanima di Federico Orlando - che poi alla resa si arrese, finendo eletto nelle file della sinistra - ha prodotto molti frutti avvelenati via via marciti. Ne è rimasto uno evergreen, particolarmente insidioso. Ed è l’idea che la democrazia è una cosa buona quando a vincere sono i buoni; altrimenti è numero, quantità, oclocrazia - potere della plebe - e ora populismo, nazionalismo, sovranismo, la trimurti infernale che incombe minacciosa sulla ‘ società aperta’.
Per scongiurare il pericolo non ci si accontenta del potere giudiziario o meglio della Corte Costituzionale che invalida le leggi in contrasto con la Magna Carta, ma si fa appello alle minoranze virtuose, agli studenti, agli operai ( ce ne sono anco- ra a sinistra?), ai professionisti che scendono in piazza, rivendicando un potere di veto che ricorda i momenti peggiori della storia nazionale. Mi riferisco, nel Novecento, alla marcia su Roma che fece cadere un governo eletto democraticamente e portò al Quirinale ‘ l’Italia di Vittorio Veneto’ ovvero le camicie nere che se ne fecero espressione. Erano minoranze virtuose che, per dirla con Giovanni Gentile, non si perdevano nelle chiacchiere parlamentari quando si trattava di salvare l’Italia. E, del resto, furono sempre le minoranze virtuose che in nome dell’antifascismo - un valore, riconosciamolo una buona volta, non condiviso certo dalle masse - misero fine a quella breve stagione centrista in cui si ricostruì l’Italia, si posero le premesse del boom economico, si rimossero le macerie della guerra. E furono ancora loro a non consentire una buona riforma universitaria - quella proposta da Luigi Gui - che il Parlamento, il legittimo potere legislativo, avrebbe approvato.
Non sono mai riuscito a capire il fascino esercitato da queste minoranze, per così dire, carismatiche.
Elogio delle minoranze si intitola un recente libro di Massimiliano Panarari e di Franco Motta ( Ed. Marsilio), l’Italia di minoranza era il titolo di un noto saggio di Giovanni Spadolini;
Italia civile ( quella delle minoranze virtuose contrapposte alle maggioranze eterodirette e prive di senso civico) era una raccolta di saggi di Norberto Bobbio, e la lista è lunga. Fu un’autentica fortuna che le minoranze virtuose, così evocate e rimpiante, rimanessero tali anche elettoralmente nel 1948. La loro sconfitta ci risparmiò almeno mezzo secolo di socialismo reale. I Bobbio, i Guido Calogero, gli Arturo Carlo Jemolo - mi limito a questi nomi perché sono quelli di autentici maestri dell’Italia repubblicana, a parte l’errore di valutazione che li portò a votare per il Fronte Popolare - insegnano che non sempre un retto ed elevato ingegno è usbergo di democrazia.