«Abbiamo importato oltre alle mafie anche il metodo mafioso che è esattamente questo: cioè le minacce agli organi di stampa e ai giornalisti con nome e cognome vengono fatte dagli avvocati dei mafiosi e non era mai successo questo nel Veneto». La frase, come riportato ieri dal Dubbio, è stata pronunciata da un giornalista, convinto che gli avvocati di un processo contro la camorra in corso a Venezia si siano fatti portatori dello stesso metodo mafioso in quel momento alla sbarra. Un’affermazione fortemente stigmatizzata dalla Camera penale e che si fonda su un pregiudizio censurato anche dalla Corte costituzionale. Basterebbe rileggere un passo della sentenza 143/ 2013 per avere chiaro un concetto base dello Stato di diritto: è una «generale e insostenibile presunzione» quella della «collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello Stato di diritto nel suo complesso». A ribadire il concetto ci pensa Vittorio Manes, ordinario di diritto penale all'Università di Bologna, secondo cui il vizio di identificare l’avvocato con il proprio assistito segna «un grave arretramento culturale su una delle funzioni più importanti che la Costituzione riconosce, che è la funzione difensiva, perché trasforma l’avvocato in un sodale del proprio assistito. Una deriva molto pericolosa - spiega al Dubbio -, perché dimentica che l’avvocato, prima di difendere una causa o una persona, prima e più in alto difende il diritto».

La seconda distorsione testimonia invece «il livello ormai triviale a cui è stata ridotta la garanzia della presunzione di innocenza - aggiunge - perché evidentemente si considera già colpevole un soggetto in pieno itinerario procedimentale». Ma al di là di ciò, si dimentica che la funzione difensiva accompagna chi è assoggettato al potere punitivo dello Stato in tutte le sequenze. Dall’inizio del procedimento, alla fase del dibattimento, fino alla fase dell’esecuzione della pena, «dove il detenuto, anche per i reati più efferati, non perderà mai il diritto ad avere una difesa nella piena esplicazione delle garanzie costituzionali, anche qualora si sia macchiato dei reati più gravi. Anzi, nella fase dell’esecuzione - continua Manes - è tanto più fondamentale la difesa quando diventa funzionale a garantire le possibilità di alternative al carcere, quindi l’attivazione di quel percorso di recupero che conduce alla funzione rieducativa della pena». E quando la Costituzione proclama l’inviolabilità del diritto di difesa, «non fa altro se non riconfermare che l’accertamento penale non può fare a meno della dialetticaprocessuale, la quale, a sua volta, non può fare a meno di un intervento del difensore che è strenuo alfiere delle ragioni dell’imputato». Una funzione cardinale nello Stato di diritto, perché se non ci fosse la funzione difensiva, se non ci fossero gli avvocati, «resterebbe solo l’esercizio della potestà punitiva come puro potere e i cittadini sarebbero trasformati da titolari di diritti in sudditi del Leviatano. Non ci sarebbe nessuno a garantire l’essenza dello Stato di diritto, cioè che il potere rispetti i propri limiti». Un ragionamento condiviso da Luca Luparia, ordinario di diritto processuale penale all'Università degli Studi di Milano, che attribuisce tale degenerazione a una «non piena consapevolezza della cittadinanza tutta del ruolo fondamentale svolto dall’avvocato». Sentirsi liberi di affermare una cosa del genere, spiega Luparia al Dubbio, prevede la consapevolezza di non dover temere alcuna conseguenza. Mentre «in un mondo normale - continua identificare l’avvocato con il cliente sarebbe inaccettabile. In molti Paesi non sarebbe tollerato ed è per questo che serve un intervento culturale». Luparia porta in dote l’esempio della Francia, dove il ministro della Giustizia è proprio un avvocato penalista, Éric Dupond- Moretti, la “Bestia nera” ( dal titolo di un suo libro), la cui scelta «nessuno ha osato criticare - aggiunge Luparia -. Con questa mentalità, un avvocato che abbia difeso un imputato per reati gravi non potrebbe mai diventare ministro in Italia e sarebbe una cosa folle». Il secondo punto riguarda il «giardino proibito» dell’arringa, «in cui si gioca la vita e la morte processuale di un imputato e che non può essere oggetto di questi commenti beceri - continua Luparia -. Assistiamo ad un’inversione metodologica che bisogna combattere». Si tratta di un sistema di vasi comunicanti tra ciò che accade all’interno del processo e ciò che accade all’esterno, tra le aule e la stampa, in cui le regole sono diverse. «Ci deve essere una barriera. Il momento dell’arringa finale è sacro e in Spagna, ad esempio, è in Costituzione: il diritto all’ultima parola spetta alla difesa. In Italia eravamo abituati a frasi come “avvocato dei mafiosi”, purtroppo, ma è la prima volta che si assiste ad una intromissione nella discussione finale in questi termini. Vuol dire avere un’idea cialtronesca della professione e non comprendere un principio chiave: l’avvocato sarà sempre indipendente dal proprio assistito, professionalmente, mentalmente e culturalmente - conclude -. Sono cose che dovrebbero appartenere al comune sentire e forse tocca anche a noi avvocati avvicinare i cittadini al mondo della giustizia penale, rendendola più accessibile. Altrimenti vincerà sempre il populismo».