Eliminare totalmente il reato dal codice penale sarebbe insensato e metterebbe a rischio la tutela dei cittadini di fronte all’azione della pubblica amministrazione. Ma l’abuso d’ufficio, nella sua forma attuale, non riesce a delimitare efficacemente i fatti che costituiscono reato, facendolo così, di fatto, evaporare. A spiegarlo è Nico D’Ascola, avvocato, ex presidente della Commissione giustizia al Senato e ordinario di diritto penale.

Abolire il reato d’abuso d’ufficio è un’opzione considerabile?

È un reato presente in tutte le legislazioni ed è una forma di garanzia per il cittadino che ha a che fare con l’esercizio del potere pubblico, che trova un proprio limite proprio nella tutela degli interessi pubblici. Da questo punto di vista, quindi, è chiaro che non si possa pensare di abolirlo, perché ogni volta che i poteri vengono esercitati in conflitto con l’interesse pubblico l’intervento penalistico è scontato. Il problema è come costruire questa norma, restringendo il campo di applicazione in modo che ci sia più equità e sia meno vaporosa la fattispecie.

Com’è attualmente la norma?

Va scritta per coprire i fatti che davvero meritano un intervento e forse l’attuale testo in ciò non è efficace. Questo accade perché è una materia oggettivamente molto difficile da regolare, non per una questione di incapacità del legislatore.

Dove si dovrebbe intervenire?

La norma dovrebbe mirare alla giusta criminalizzazione ma solo come extrema ratio, per evitare di incrementare la conflittualità tra politica e magistratura e non bloccare la pubblica amministrazione, punendo solo i comportamenti pienamente dolosi, che violano i poteri conferiti. L’articolo 323 del codice penale nasce con un’indicazione fondamentale: prima di essere reato deve essere illecito amministrativo, cioè deve porsi in violazione di legge. Questa esigenza di tipicità era frustrata dall’inclusione del vizio di eccesso di potere o sviamento di potere, che ha determinato un certo grado di indeterminatezza, in quanto non tipicizzabile, diluendo, di fatto, la norma.

Quali sono i limiti, dunque?

Frequentemente, nel contestare l’abuso d’ufficio, la violazione non viene ricondotta all’atto normativo principale, ma ad atti secondari, come circolari o norme imprecise, troppo generiche e diluite nella norma principale. Bisogna punire quei comportamenti che producono effetti del tutto contrari ai principi previsti dalla legge violata, contrari alle ragioni del potere conferito, individuando il nucleo della illiceità oggettiva. Inserire troppe sottonorme o indicare anche esiti diversi non necessariamente ricompresi nelle finalità della norma, di fatto, la vaporizza. In questo modo tutto può essere inteso in conflitto con i principi di buon andamento e imparzialità, componenti che non perimetrano fedelmente la responsabilità penale, perché possono essere invocati da tutti.

E come va perimetrato il reato?

Un vero e proprio abuso d’ufficio dovrebbe concretizzare danni o vantaggi in netto conflitto con gli obiettivi della legge violata, limitando, dunque, con esattezza anche la punibilità. Bisogna circoscrivere ontologicamente le categorie cui far riferimento. Coniugare queste categorie genericamente con lo sviamento del potere o con componenti spiritualizzate, estremamente dilatate, ricorrendo a fonti normative di rango secondario, finisce per sindacare il comportamento del pubblico ufficiale anche quando non necessariamente antigiuridico.

Il dolo intenzionale non basta, insomma?

La componente soggettiva non è un filtro serio, perché è impossibile fare la fotografia dei processi mentali. Quella oggettiva, invece, è evaporata. E allora dovremmo limitare la violazione solo alle leggi in senso formale e non alle componenti di rango secondario, fare in modo che il danno o il vantaggio sia effettivamente confliggente con l’interesse pubblico per cui vengono attribuiti quei poteri.

E quando c’è l’erronea interpretazione della legge cosa si potrebbe fare?

Si potrebbe prevedere la possibilità di chiedere un parere all’autorità regionale di controllo, consentendo così una valutazione dell’errore.

Nessun ostacolo allo sviluppo nella norma, in sé, dunque.

Pensarlo è un atteggiamento sbagliato. Un paese ad economia avanzata, come l’Italia, ne ha bisogno, altrimenti sarebbe da selvaggi.