Altro urge e problemi più gravi sono nell’agenda e nelle preoccupazioni del paese. Forse, però, è proprio questo il momento per riprendere le fila di un discorso le cui braci ardono in profondità e che resta comunque centrale nel tempo che verrà. La separazione delle carriere è stata al centro del dibattito recente del congresso dell’Unione delle Camere penali, e il cambio al vertice dell’associazione non sembra annunciare una diversa postura sull’argomento. Per l’avvocatura italiana e per una parte maggioritaria della politica, scindere il pubblico ministero dal giudice resta un passaggio obbligato per arrivare al tanto sospirato giusto processo. Anche se, in verità, un nugolo di aborti in primo grado, di assoluzioni in appello, di ribaltamenti in cassazione sembrerebbe flettere il barometro verso un clima meno fosco e urticante rispetto a quanto si denuncia. È vero, lo sappiamo. Il punto vero di frizione è quello delle indagini preliminari, delle intramontabili conferenze stampa, del trafugamento delle carte, della famosa gogna mediatica. Su questo versante, malgrado il molto che si è fatto (in primo luogo la legge sulla presunzione di innocenza) e si vorrebbe fare (la contestata via del nuovo “tribunale della cattura” al posto del gip), la ferita resta aperta, ed è qui che si appuntano le critiche più aspre dei fautori della separazione. Soluzioni radicali non godono del sufficiente sostegno per entrare nel torrido agone della discussione. Così resta impraticabile l’idea dell’eliminazione del controllo giurisdizionale (ossia del gip) dalla fase delle indagini preliminari, sul modello anglosassone; rescissione che isolerebbe l’attività del pubblico ministero da ogni contaminazione/avallo giurisdizionale e rafforzerebbe il

circuito di responsabilità che, al momento, è particolarmente lasco proprio in forza della presenza del gip negli snodi più rilevanti delle indagini (libertà personale, intercettazioni etc.). Il processo penale in senso stretto (dal primo grado alla Cassazione) appare avviato a metabolizzare in profondità la parità tra le parti grazie anche a circa 20 anni di separazione di fatto delle carriere a causa anche degli scarsi travasi tra i due alambicchi. Certo resta il “buco nero” dei processi di mafia, soprattutto in alcuni fortilizi giustizialisti, per i quali ancora l’avvocatura denuncia storture, contiguità, accomodamenti che, tuttavia, potrebbero avere radici diverse dall’unicità delle carriere e che si potrebbero spiegare, forse, per comunanze di vita, condivisione di frequentazioni, medesime provenienze concorsuali. In ogni caso, è nella commistione tra giudice e pm durante la spesso lunga fase delle indagini preliminari che si deve ricercare la ragione profonda delle resistenze e degli imbarazzi che talvolta le difese avvertono nella gestione dei dibattimenti quando si tratta di sconfessare non solo e non tanto l’accusa, quanto il giudice che ne ha avallato le scelte più invadenti e corrosive sul piano delle libertà.

E quando la liaison si interrompe o spezza, gli effetti sono eclatanti e le polemiche quasi scabrose.

Con sempre minore convinzione e, a tratti anche sbeffeggiata, si oppone ai “separatisti” la tesi che il codice di procedura imponga al pm la ricerca finanche delle prove favorevoli all’indagato ( articolo 358) a dimostrazione non tanto di una impredicabile terzietà, quanto di una sostanziale neutralità dell’accusa rispetto all’esito delle indagini. È vero, e non reso sufficientemente chiaro alla pubblica opinione, che la stragrande maggioranza dei procedimenti finisce in archivio proprio perché

( anche) il pm, alla ricerca di elementi completi per la ricostruzione della vicenda, si imbatte in prove favorevoli all’indagato. Ma quando la posta si innalza – o per l’adozione di misure cautelari o per la “qualità” dell’indagato – allora la partita tende a smarrire le regole, e troppe volte l’arbitro non fischia i falli commessi dall’accusa nell’ignorare ( quando non occultare, come purtroppo è emerso) le prove in favore della difesa.

La norma non prevede sanzioni processuali di alcun tipo, e nulla importa all’imputato che il pm neghittoso, negligente o, peggio, in malafede, finisca sotto la scure di un eventuale procedimento disciplinare. L’unica vera sanzione processuale per un processo in cui si accerti che prove non sono state acquisite dal pm per sua colpa è quello dell’immediato proscioglimento dell’imputato perché la partita è stata truccata e, come nel calcio, anche la perdita di qualche immeritato scudetto non guasterebbe.

Si discute al calor bianco del caso della giudice catanese e dei suoi provvedimenti in materia di immigrazione clandestina; si scovano fotogrammi e brandelli di fanghiglia mediatica per minare la legittimità dei suoi provvedimenti. L’Anm si è espressa chiaramente, in persona del presidente Santalucia, su questa inedita prassi, e diversità di valutazioni emerse di recente tra le correnti sul gradiente di difesa della giudice si spiegano con modi molto diversi di intendere la terzietà. Ma tra chi alimenta la polemica, ancora non c’è chi trovi il modo, piuttosto, per sanzionare nel processo – che l’accusa promuove – l’atteggiamento del pm che si sia colposamente o dolosamente disallineato dall’obbligo di cercare e/ o esibire le prove favorevoli all’imputato. Con il pericolo che costui altri processi inauguri e altre scorrettezze possa commettere.

Non basta il versante, meramente autarchico e corporativo, delle valutazioni di professionalità riformate dalla legge Cartabia oggi alla prova dei decreti attuativi. Il processo unfair, ossia ingiusto perché scorretto, non può raggiungere per definizione la verità, e l’inattingibilità del suo scopo euristico non deve essere dichiarata dal giudice sulla base di valutazioni troppo discrezionali, ma imposta dalla legge in presenza di una riconosciuta e grave violazione dell’articolo 358 su qualunque versante dell’articolo 187, ossia la responsabilità, la pena, l’imputazione. Anche una pena ingiusta perché un’attenuante è rimasta occultata, inficia il processo per intero. È un problema di regole e chi non le rispetta perde a tavolino.