IL COMMENTO

LANFRANCO CAMINITI

In principio, il 24 febbraio giorno dell’invasione, fu – gli ucraini si debbono arrendere perché non c’è partita, non hanno speranza contro l’Invincibile Armata Russa, e prima si arrenderanno meglio è, per loro, che altrimenti ne moriranno a milioni, e per noi, che non veniamo coinvolti. Ora è: gli ucraini bisogna fermarli, cosa aspetta Washington?

Che se non si fermano Putin sgancia l’atomica?

A Triste, solitario y final... la desolante parabola del pacifismo italiano

Giustificano i carnefici e disprezzano le vittime, chiedono la resa di Kiev e osano chiamarla pace

In principio, il 24 febbraio giorno dell’invasione, fu – gli ucraini si debbono arrendere perché non c’è partita, non hanno speranza contro l’Invincibile Armata Russa, e prima si arrenderanno meglio è, per loro, che altrimenti ne moriranno a milioni, e per noi, che non veniamo coinvolti.

Ora è – gli ucraini bisogna fermarli, cosa aspetta Washington?

Che se non si fermano e vanno a riprendersi il Donbas e magari pure la Crimea, Putin sgancia la bomba nucleare, e ne moriranno a milioni, e moriremo pure noi.

Nell’intervallo tra il principio e l’ora – in questi lunghi quasi otto mesi di guerra – non c’è stato giorno in cui i pacifisti italiani si siano risparmiati nel minimizzare o negare gli orrori della guerra, in una continua “giustificazione” di Putin ( e l’allargamento a est della NATO e gli accordi disattesi di Minsk e); e di “colpevolizzazione” degli ucraini ( e il battaglione banderista- nazista dell’Azov e il golpe dell’Euromaidan e l’asservimento agli americani fino a funzionare da esercito proxy nello scontro platealmente palese tra Usa e Russia e).

E il tutto in una sorta di “metonimia del disprezzo” per cui il corpo di Zelenski ha finito per incarnare e riassumere il fastidio per gli ucraini tutti – il comico, il porno- attore, il folle scriteriato che ci sta trascinando tutti nell’apocalisse, fino alla grottesca bagarre per la copertina di «Vogue».

Verrebbe da dire che il “nemico” dei pacifisti italiani non sia la guerra, ma Zelenski.

C’è da disperarsi. Che poi è lo stesso sentimento che provava Gerald Holtom, un artista inglese convinto obiettore di coscienza nella Seconda Guerra mondiale, quando disegnò quel simbolo della pace, che poi è divenuto iconico, per la prima importante manifestazione per il disarmo nucleare ( Campaign for Nuclear Disarmament) nel 1958, una marcia di cinquanta miglia da Londra, Trafalgar Square, fino a Aldermaston, dove c’era una fabbrica di armi. Holtom si ispirò alle comunicazioni navali con le bandiere, disegnando una linea centrale per una “D”, che si fa con un braccio levato sopra la testa e un altro verso il basso, e due linee che nel basso della linea partono verso i lati per una “N” che si fa con le braccia abbassate e un po’ divaricate, e incorniciando poi tutto dentro un cerchio.

« I was in despair. Deep despair. Ero profondamente disperato. Disegnai me stesso: la rappresentazione di un individuo disperato, con il palmo delle mani teso verso l'esterno e verso il basso alla maniera del contadino di Goya davanti al plotone di esecuzione».

Il simbolo divenne anche delle spillette, e qualcuna arrivò negli Stati uniti, e lì divenne presto non solo l’icona delle proteste nelle marce contro la guerra in Vietnam ma il “segno” di una intera generazione – quella che si celebrò a Woodstock: peace, love e queste cose di qua.

Ma qui proviamo a capirci: il pacifismo di quella generazione era integrale, integralista, “religioso” – era il rifiuto delle armi, della guerra, della violenza stessa: sognava l’era dell’Acquario, un mondo in cui la guerra era bandita e il mondo era governato dalla non- violenza e dall’amore. Mettete dei fiori nei vostri cannoni.

Il pacifismo di adesso è tutto “geo- politico”, unilaterale, nel senso che non chiede a Putin di smettere le armi, ma agli ucraini di farlo, di arrendersi. Che Putin rincorra la sua guerra al nucleare è capito, persino giustificato: il mondo ha da essere multipolare, visto che non siamo ora così ingenui e infantili da immaginarlo governato dall’amore – e perciò Putin ha diritto alle sue armi di distruzione, altrimenti come potrebbe controbilanciare la potenza distruttiva dell’America?

Cascano le braccia, appunto. Proprio il contrario dell’uomo vitruviano di Leonardo.

Che nel mondo pacifista italiano ci siano persone di nobili pensieri – tolstoiani, per capirci – disposti probabilmente anche a mettere in gioco la propria vita per non impugnare la armi, per il rifiuto convinto e determinato della guerra, di ogni guerra come “soluzione dei conflitti”, questo è fuor di dubbio. Si contano sulle dita di una mano.

Ma la richiesta più insistente da questo mondo è stata quella di trattare, di mediare, come non ci avessero provato tutti, da Scholz a Macron, da Draghi a Erdogan, per mettere russi e ucraini attorno a un tavolo – e quando è accaduto non è successo niente di niente. Bisogna insistere certo, sempre, ma perché la richiesta di una trattativa dovrebbe essere alternativa alla resistenza, che sola è possibile a mezzo delle armi; perché la trattativa dovrebbe configurarsi nella forma non della resistenza ma della desistenza? In realtà, il “pensiero della pace” in questo specifico conflitto non ha mai assunto la chiara definizione di una proposta. Voglio dire – tu chiedi che gli americani smettano di lanciare bombe su Saigon; tu chiedi che in Siria o in Kurdistan non vengano usate le armi chimiche; tu chiedi che Milosevic la smetta di assediare Sarajevo. Qui, invece, il pensiero della pace non è mai diventato carne e sangue di una proposta precisa, e si è trasformato in un “pensiero magico”; la pace, basta evocarla, e ecco là. A meno, appunto, di darle forma nell’unica proposta che è stata sempre indicata dai pacifisti unilaterali italiani: che gli ucraini smettano di resistere e si arrendano.

Siamo disperati, in deep despair. Per il terrore che ci provoca la eventualità stessa dell’uso dell’atomica e di quello che ne verrebbe. E per la pochezza stessa di un’opposizione pacifista alla guerra, che non solo ha assunto questo aspetto “geopolitico” delle aree di influenza, ma anche i caratteri della speciosità degli attriti fra partiti per la conquista di simpatie e elettorato; è quello che ho chiamato “il populismo pacifista” – l’agitazione del tema della pace solo per interessi di partito. Non è che sia proprio una cosa nuova: il Partito comunista per tutti gli anni Cinquanta additava ( e a ragione) le spinte belliche americane, ma chiudeva gli occhi su quelle sovietiche. Uno strabismo.

E stiamo ancora qui. Strabici.