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SORPRESA ALLE URNE?
EROCCO VAZZANA
se fosse stato un azzardo? L’interrogativo ha iniziato ad affollare i pensieri di berlusconiani e salviniani un minuto dopo la decisione di non votare la fiducia a Mario Draghi. E le voci arrivate dalla società civile – dalla casalinga di Voghera ai broker di Piazza Affari – per quanto montate dall’ufficio “propaganda” allestito a Chigi in questi giorni, sono di certo autentiche e riecheggiano sinistre a via Bellerio e ad Arcore.
Insomma, l’incubo degli analisti del centrodestra è che l’affondo di Salvini e Berlusconi possa trasformarsi in un harakiri senza precedenti. Anzi, a ben vedere un precedente c’è: quello di Achille Occhetto nel ’ 93, quando decise di abbandonare il governo Ciampi per andare a elezioni, convinto che la sua gioiosa macchina da guerra avrebbe vinto a mani basse. Sappiamo tutti come andò a finire: Occhetto perse sotto i colpi dell’uomo che oggi ha replicato quell’azzardo, Silvio Berlusconi naturalmente.
Ecco, a quasi 30 anni di distanza la tragicommedia potrebbe ripetersi a parti invertite. La hybris del centrodestra potrebbe infatti favorire un Pd che in questi mesi si è presentato come l’alfiere di Draghi e del draghismo. Ma affinché il “miracolo” si ripeta, servirebbe coraggio, capacità visionaria e un pizzico di sana incoscienza. Enrico Letta dovrebbe decidere di adottare fino in fondo l’agenda Draghi, tagliare di netto qualsiasi legame coi 5Stelle – ovvero con coloro che hanno aperto la crisi su cui il centrodestra si è “fiondato” – e creare un nuovo contenitore liberale, democratico, riformista – insieme a Renzi, Calenda e Bentivogli – in grado di includere quei pezzi di società civile che mai voterebbero il Pd, ma che vorrebbero un nuovo contenitore pronto a riportare Draghi e la sua agenda a palazzo Chigi.
Riuscirà il Pd ad avere questa capacità visionaria o preferirà continuare a perdere col vecchio schema per poi affidarsi a maggioranze costruite con giochi di palazzo? Staremo a vedere… Se non per amore per convenienza Così Conte spera di salvare l’alleanza
Il leader M5S non si è ancora arreso alla fine del campo largo e confida di convincere Letta
Il fragore della porta sbattuta in faccia dal Pd, dopo la non fiducia del Movimento 5 Stelle a Draghi, non ha ancora indotto Giuseppe Conte a desistere. E ora che c’è già una data per le elezioni, il 25 settembre, l’avvocato spera ancora di poter tenere in vita il campo largo evitando di tagliare definitivamente i contatti con Enrico Letta.
Conte spera ancora di convincere l’ormai ex alleato, che sembra aver accantonato per sempre l’intesa giallo- rossa, ad accettare un accordo quantomeno in nome della convenienza reciproca.
«Senza il M5S il Pd non riuscirà a battere la destra», è il ragionamento a cui si aggrappano i pentastellati ottimisti, sposando il pragmatismo del dem Luigi Zanda, che alla Stampa ha parlato di un’intesa elettorale tattica. Ma l’impresa sembra titanica. Il Nazareno ha ormai disegnato un confine invalicabile che separa il Pd da tutte le forze che hanno determinato, con pari «responsabilità», la fine del governo Draghi.
Conte lo sa ma ci prova comunque, leggendo con attenzione in controluce tutte le dichiarazioni pubbliche di Letta. Come quella che in serata l’ex premier rilascia al Tg3: «La differenza che si è creata in questi giorni in modo così evidente col M5S lascia un segno e credo che difficilmente sarà ricomposto». Difficilmente non equivale a un “no” secco, confidano da Campo Marzio, anche se il tempo a disposizione è ormai agli sgoccioli. La campagna elettorale balneare è già cominciata e senza una risposta positiva da parte dell’ex alleato ai grillini non resterà che tentare l’avventura solitaria. Il rischio isolamento è forte e, senza il Pd, sul mercato elettorale restano ben poche sigle con cui stringere un patto per il voto. E tutte con percentuali di poco superiori al prefisso telefonico. Qualche interessamento a un apparentamento si sarebbe palesato dall’area che ruota attorno all’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Ma si tratta solo di contatti informali e in ogni caso poco lusinghieri per Conte. Che nonostante il nuovo corso progressista - fatto di temi sociali, ambientali e del lavoro - non potrà contare nemmeno sul sostegno non certo pesante di Sinistra italiana. Il partito di Nicola Fratoianni, insieme ai Verdi di Angelo Bonelli, dovrebbe aver già messo in cassaforte l’accordo con Letta per correre alle elezioni insieme al Pd.
Al Movimento, molto probabilmente, non resterà che la strada della marcia solitaria, sperando di recuperare in così poco tempo un briciolo di consensi. In gioco c’è la sopravvivenza politica di una forza nata dal nulla, balzata al 33 per cento nel giro di un amen e adesso in piena crisi d’identità. E per capire la drammaticità della situazione basta fare due chiacchiere con quell’esercito di parlamentari, soprattutto al secondo mandato che sente sul collo il fiato del ritorno a una vita “normale” dopo un sogno incredibile durato nove anni. Sono deputati e senatori rimasti nel M5S solo perché era inutile seguire Luigi Di Maio in un piccolo contenitore senza più posti a sedere. Cittadini al potere, diventati politici cinici, fino a due giorni fa convinti di avere ancora tempo per accasarsi alla spicciolata in qualche altro partito. Il precipitare improvviso della situazione li ha colti di sorpresa e ora si aggirano per i Palazzi con lo sguardo listato a lutto e il morale sotto i piedi. Inutile pure sbattere i pugni per ottenere una deroga al vincolo dei due mandati. «Tanto a che serve? Prenderemo percentuali ridicole», è il pensiero rassegnato dei peones.
A Conte, che finalmente potrà creare le liste elettorali a sua immagine e somiglianza, il compito di farli ricredere e salvare il Movimento dall’estinzione.
Il campo largo non rischia di sparire solo come progetto futuro, potrebbe sbriciolarsi anche nei contesti in cui è già stato sperimentato. In Sicilia, tanto per cominciare, dove potrebbero essere stoppate le primarie in corso per la selezione del candidato governatore. La competizione di coalizione, per ora, è confermata ma non è detto che la campagna elettorale non obblighi a riconsiderare la scelta.
E se a Napoli la Giunta Manfredi non dovrebbe subire scossoni, nel Lazio gli eventi potrebbero seguire un corso diverso. L’assessora grillina Roberta Lombardi, pur rivendicando lo strappo con Draghi, difende l’unità dell’amministrazione Zingaretti. Ma l’ex segretario del Pd, nonché primo teorizzatore dell’alleanza giallo- rossa, potrebbe decidere di lasciare la presidenza della Regione per candidarsi in Parlamento, determinado la fine anticipata della legislatura anche nel Lazio.
La fine del governo ha velocizzato tutto. Compreso il rischio di sparire