Edmondo Bruti Liberati ha retto per molti anni la Procura guidata ai tempi del Pool da Francesco Saverio Borrelli. Ha osservato l’evolversi della corruzione da Mani pulite, quando già era pm a Milano, e ha vissuto diverse “epoche” della giustizia inquirente: è stato insomma nel cuore degli uffici al quarto piano di Palazzo di Giustizia durante tutta una lunga serie di passaggi, che oggi secondo una singolare circolarità vedono come procuratore capo di nuovo un magistrato di Mani pulite, Francesco Greco. Bruti Liberati, a lungo anche ai vertici dell’Anm di cui è stato presidente tra il 2002 e il 2005, rilegge dunque la storia degli ultimi venticinque anni da un punto d’osservazione strategico. E dev’essere anche questo a consentirgli, di fronte a periodici ritorni all’enfasi mediatica come sfondo delle inchieste penali, di dire che «alla giustizia, il tifo da stadio fa ancora più male, se possibile, degli attacchi denigratori e delegittimanti» .

Si può discutere di quanto le inchieste sulla corruzione dei primi anni Novanta abbiano alterato l’equilibrio nei rapporti tra politica e magistratura: difficile però negare che magistrati come quelli del Pool di Mani pulite fossero animati da uno slancio civile molto forte. Crede che nella maggioranza dei magistrati delle nuove generazioni si possa trovare lo stesso tipo di slancio? A venticinque anni dalle indagini di Mani pulite, che non furono solo milanesi, è tempo non di celebrazioni, ma di analisi. Vi furono, certo, taluni eccessi, in particolare nell’uso della custodia cautelare in carcere, errori, protagonismi. Vi furono dolorose e tragiche vicende personali. Ma la storia di Mani pulite non è una storia di eccessi e di errori, è, al contrario, la storia del doveroso intervento repressivo penale di fronte ad un vero e proprio sistema di corruzione, ad una devastazione della legalità, quando tutti i controlli preventivi amministrativi, la concorrenza delle imprese sul mercato ed i rimedi interni al sistema politico erano rimasti inoperanti e settori de- gli stessi apparati di verifica e di repressione erano stati inquinati. Oggi sono mutati i meccanismi della corruzione, ma non la gravità del fenomeno. Una novità positiva è la istituzione dell’Anac; un organo ancora giovane, da cui non si possono pretendere miracoli né gravarlo di compiti impropri; ma per la prima volta, dopo precedenti deludenti esperienze, abbiamo un vero meccanismo di prevenzione. E i primi risultati positivi si vedono. Abbiamo oggi una magistratura consapevole della propria indipendenza, impegnata a riaffermare il primato della legalità senza reticenze o timori reverenziali, con adeguata professionalità. Ma occorre sempre aver ben presenti le specificità del processo penale che è volto non a risolvere fenomeni o problemi sociali, ma ad accertare, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa, fatti specifici e responsabilità individuali. La esperienza di Mani pulite ci insegna poi che una cosa è l’apprezzamento della opinione pubblica per la azione dei magistrati e altro è il tifo da stadio o il sostegno acritico, che alla giustizia fa ancora più male, se possibile, degli attacchi denigratori e delegittimanti.

Quelle inchieste, di fatto, avrebbero dovuto anche determinare un miglioramento della qualità della classe politica: ma se confronta qualità e spessore dei politici di venticinque anni fa e con la classe politica attuale, davvero vede un “miglioramento”?

Ringrazio molto per questa domanda perché mi consente di dire che non rispondo. Non spetta ad un magistrato, e mi sento tale anche se in pensione, dare giudizi sulla classe politica, quella di trenta anni fa o quella attuale. La magistratura penale ha il dovere di accertare reati e non di dare valutazioni politiche o etiche; il magistrato come singolo o come esponente dell’associazionismo giudiziario ha il diritto, talora il dovere civico, di esprimere valutazioni sulle proposte di riforma in materia di giustizia, ma deve rifuggire rigorosamente non solo da logiche di schieramento politico, ma anche, e oggi ancor più da cedimenti al populismo. Ivi compresa la rappresentazione del dualismo ‘ magistratura buona versus politica corrotta’.

Il caso dei magistrati americani che arginano le forzature di Trump in materia di immigrazione: la magistratura Usa non è indipendente dal potere esecutivo, eppure ha saputo metterlo in discussione. Questo può voler dire che l’indipendenza non è indispensabile perché la magistratura possa esercitare le proprie funzioni in un corretto equilibrio democratico?

Direi piuttosto che occorre considerare insieme le garanzie formali e le istituzioni come operano nella realtà sociale, in un contesto Usa di una vivace società civile e di una libera ed “aggressiva” stampa. Vi sono democrazie mature in Europa dove il Pm è formalmente soggetto a direttive dell’esecutivo, ma la prassi assicura quelle garanzie di indipendenza che la norma scritta non offre. In Italia dove quelle garanzie le abbiamo scritte in Costituzione e nelle leggi, teniamocele strette. La situazione degli Stati Uniti, tra strutture federali e statali, è molto complessa. Molti dei magistrati che hanno deciso in contrasto con il Presidente sono stati nominati dalla precedente amministrazione democratica. Ma l’esercizio concreto della funzione giudiziaria, sorretto da una forte professionalità, stimola ad esercitare obbiettività ed indipendenza, come in Usa hanno dimostrato negli anni diversi giudici della Corte Suprema. In un confronto pubblico con il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin, il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo si è detto favorevole alla partecipazione a pieno titolo ( anche in materia di valutazioni di professionalità dei magistrati), nei Consigli giudiziari, del presidente dell’Ordine distrettuale degli avvocati: crede che una soluzione simile sarebbe condivisibile?

Nel 1984 ho fatto parte di quei pochi componenti del Csm che avanzarono questa proposta, rimanendo in minoranza. Non ho cambiato opinione e se oggi il consenso nella magistratura è più ampio vuol dire che alla fine le buone proposte si impongono.

I rapporti tra avvocatura e magistratura associata non sono sempre distesi: proprio la componente che fa capo al presidente Anm ha sostenuto, nei mesi scorsi, che la presenza a pieno titolo degli avvocati nei Consigli giudiziari sarebbe pericolosa in aree del Paese presidiate dal crimine organizzato. Esistono “avvocature diverse”? Lei che ha avuto modo di rapportarsi con quella milanese, molto impegnata persino nel finanziare alcune attività del Tribunale, crede che in Italia la categoria degli avvocati abbia un diverso grado di credibilità e autorevolezza a seconda dei contesti? I settori più corporativi della magistratura hanno sempre prospettato il pericolo di atteggiamenti “ritorsivi” da parte della avvocatura locale; io vedo, al contrario, il rischio di un atteggiamento rinunciatario e “buonista” quando si tratti di assumere la difficile responsabilità di una valutazione negativa.

Altri magistrati oppongono quest’osservazione del tutto opposta all’altra: ma diciamo che siete in minoranza. Magistratura, giudicante e requirente, e avvocatura sono, nei rispettivi ruoli, componenti essenziali di un sistema giustizia che assicuri la tutela dei diritti delle persone. Quando dal fisiologico e salutare confronto di opinioni si scende verso la contrapposizione frontale è un male per tutti. La collaborazione è più agevole, direi si impone, nelle sedi locali, a Milano, ma non solo, perché ci si confronta con i problemi concreti di funzionalità ed efficienza e con i casi concreti di applicazione della legge. A livello centrale il confronto è reso più difficile da alcune prese di posizioni “ideologiche”. Il recente intervento del presidente del Cnf, l’avvocato Andrea Mascherin, pone a tutti, avvocati e magistrati una sfida alta: “Dialogo, confronto e ascolto sono l’unico modo per governare la modernità. Dialogo e non pregiudizi e teoremi”. La magistratura rifugga da chiusure corporative, ma l’avvocatura raccolga questa sfida. Penso al tema della prescrizione, che ha visto chiusure pregiudiziali della Unione delle Camere penali. Eppure sono a portata di mano riforme, già avanzate anche da commissioni presiedute da professori e avvocati, che segnino la fine della possibilità che la prescrizione operi in corso di giudizio, cosa che la legge non consente in nessun paese dell’orbe terracqueo, ma insieme impongano tempi ragionevoli per il giudizio di appello e cassazione. Considero irrinunciabile, pur con i dovuti limiti di ammissibilità, il giudizio di appello, ma se vogliamo davvero tutelarne il valore di garanzia occorre intervenire sulla prescrizione.

Davigo è stato un presidente dell’Anm molto “mediatico”, in termini di politica associativa, invece, forse non ha avuto gli stessi successi: condivide questo giudizio?

Il mio lungo impegno e con ruoli di responsabilità nell’Anm è stato nel ricercare il punto di equilibrio tra le due tensioni che percorrono da sempre l’associazionismo: tutela degli interessi professionali della categoria e/ o impegno per un sistema giudiziario all’altezza della tutela dei diritti. Comprendo la disaffezione e frustrazione dei tanti magistrati che operano in condizioni organizzative tali che, nonostante ogni impegno personale, non consentono di assicurare un servizio giustizia efficiente e tempestivo. Ma oggi in Anm sembra prevalere, a tratti, la chiusura corporativa, il rivendicazionismo spicciolo, l’atteggiamento spocchioso del proporsi come unica istituzione sana del paese, il ridurre tutto all’opposizione magistratura versus politica corrotta, magistratura versus avvocatura. Sono posizioni inaccettabili da parte di chi svolge non un ruolo impiegatizio ma è uno dei poteri dello stato.

Populismo è diventata una specie di chiave universale della teoria politica. Ma che esista anche un populismo giudiziario è innegabile: è così?

Se il populismo della politica è male, il populismo giudiziario è pessimo. La forte denuncia del populismo giudiziario che segnò un intervento del 2012 di Luigi Ferrajoli è più che mai attuale: “L’esibizionismo, la supponenza e il settarismo di taluni magistrati, in particolare Pm” e il “loro protagonismo nel dibattito pubblico diretto a procurare consenso alle loro inchieste e soprattutto alle loro persone”. Non meno attuali le massime deontologiche che Ferrajoli proponeva: “Il costume di sobrietà e riservatezza”; “la consapevolezza del carattere sempre relativo ed incerto della verità processuale”; “il costume del dubbio, la prudenza nel giudizio, la disponibilità all’ascolto di tutte le diverse e opposte ragioni”; “il rispetto dovuto a tutte le parti in causa, vittime e imputati, pur se mafiosi, terroristi o corrotti”.

«LA MAGISTRATURA NON DEVE ESSERE CORPORATIVA: IL PRESIDENTE DEL CNF MASCHERIN PONE UNA SFIDA ALTA QUANDO DICE “DIALOGO, NON PREGIUDIZI E TEOREMI, SONO L’UNICO MODO PER GOVERNARE LA MODERNITÀ”.

E UN MAGISTRATO DEVE SEMPRE COLTIVARE IL DUBBIO»