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Foto Claudio Furlan/LaPresse 19-09-2023 Milano, Italia - Udienza in Assise a carico di Alessia Pifferi imputata per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana, presso il Tribunale di Milano Nella foto: Alessia Pifferi Photo Claudio Furlan/LaPresse 19-09-2023 Milan, Italy - Assize hearing against Alessia Pifferi accused of letting her daughter Diana die of starvation, at the Court of Milan
«Ho lavorato ricoprendo vari ruoli nelle carceri della Lombardia per quasi 30 anni. Ho dato la mia vita per quel posto. Ora quello che mi sta accadendo lo vivo con angoscia e stupore allo stesso tempo. Sono affranta e basita. Sono riusciti a spaventarmi e umiliarmi per motivi che fatico a comprendere». È una lettera carica di dolore quella consegnata all’Asl - e depositata in procura - da Paola G., psicologa del carcere di San Vittore indagata dal pm Francesco De Tommasi, assieme ad una collega e all’avvocata Alessia Pontenani, per la perizia svolta su Alessia Pifferi, la donna a processo per aver lasciato morire di stenti la figlioletta di soli 18 mesi.
Una lettera con la quale la donna denuncia quella che definisce un’ingiustizia, aggravata dalla “sfilata” che è stata costretta a fare, in carcere, in occasione della perquisizione, e con la quale comunica il proprio addio agli istituti penitenziari, qualunque sia l’esito dell’indagine che la vede coinvolta. Secondo il pm - che rappresenta anche l’accusa nel caso Pifferi, dal quale la collega Rosaria Stagnaro ha invece chiesto di essere sollevata proprio in virtù dei dissidi con il collega - le due psicologhe avrebbero svolto una vera e propria attività difensiva a favore della Pifferi, attività che vedrebbe coinvolta anche la legale della donna, Pontenani. Che, però, è stata nominata dopo la perizia con la quale le due psicologhe avevano certificato un Qi pari a 40, ovvero quello di un bambino di sette anni.
«La mia conoscenza pluriennale del contesto, i miei studi di etnopsicologia, la mia esperienza nella gestione di situazioni critiche mi hanno portato a essere spesso ingaggiata in situazioni molto complesse e a volte pericolose che riguardavano i detenuti più difficili», ha scritto la donna nella sua lettera, che rappresenta l’unica dichiarazione rilasciata, avvalendosi della facoltà di non rispondere nel corso dell’interrogatorio di oggi. «Ho sempre speso la mia professionalità verso gli ultimi degli ultimi. Mi sono sempre occupata di coloro che non avevano nulla e nessuno. Nella maggior parte dei casi chiamata e sollecitata dagli agenti di Polizia penitenziaria con i quali ho sempre collaborato fattivamente anche oltre quelle che erano le mie strette competenze di ruolo professionale. Non mi sono mai sottratta ai miei compiti lavorando sempre in modo attento, professionale e anche appassionato - ha sottolineato -. Ogni volta che richiedevano la mia collaborazione avevo sempre in mente prioritariamente di non mettere in pericolo gli agenti di polizia penitenziaria, il detenuto e solo in ultimo me stessa».
La perquisizione a casa, «che ha coinvolto la famiglia è un trauma personale», ha evidenziato. Ma peggio ancora è stata quella sul posto di lavoro: «Trascinarmi a San Vittore dalla porta carraia come i detenuti, scortata a vista, messa in una situazione dove tutti hanno potuto osservare la scena, agenti, detenuti, colleghi, questo ha avuto il solo scopo di umiliarmi - ha protestato -. Questo è stato un “in più” non necessario. So di essere stata sospesa da San Vittore per motivi di opportunità. lo credo che la verità verrà a galla insieme alla mia più totale innocenza e buona fede perché credo che la magistratura farà un lavoro serio e secondo i principi costituzionali di giustizia. lo sono innocente su tutta la linea. Il mio sentimento però ora è di fortissimo dolore e annientamento. Ho però una sola certezza, qualsiasi cosa accada: di non volere mai più lavorare all’interno di un qualsiasi istituto penitenziario. Anche se dovessero revocare la sospensione all’ingresso io non voglio tornare».
Un grido di dolore che si aggiunge alle tante domande che la difesa di Paola G., rappresentata dall’avvocato Mirko Mazzali, si pone da giorni. «La magistratura è intervenuta a gamba tesa sull’attività professionale di due psicologhe e anche sul comportamento di un avvocato e questo è preoccupante - ha commentato -. Mi pongo un problema più da cittadino che da avvocato: se le psicologhe hanno sbagliato un test è un reato? Se l’avvocato gioisce per una consulenza è reato? Per me no e questo è il tema di questo caso». Il pm ha depositato una memoria di 100 pagine, zeppa di intercettazioni ritenute «irrilevanti rispetto alle contestazioni» da parte di Mazzali, che si è riservato di depositare la sua una volta che le accuse saranno cristallizzate.
Per Mazzali si tratta, però, di un’indagine «zoppicante». «L’attività delle psicologhe all’interno del carcere non è mai un’attività né clandestina e né solidale - ha spiegato Mazzali al Dubbio -, perché è un’attività collettiva. Il pm sostiene che questo test non andava fatto, ma chi lo stabilisce? Pifferi era una persona in isolamento, una persona che una volta, andando a messa, è stata picchiata dalle altre detenute, una persona che ha ammazzato una figlia. E tutto ciò che è stato fatto è frutto di un lavoro di equipe».