L’Unione della Camere Penali denuncia da tempo il fenomeno sempre più grave delle minacce ricevute dai difensori, non solo nei processi mediaticamente più esposti, per il solo fatto di assistere un imputato accusato di reati sessuali, o di genere o comunque per fatti particolarmente odiosi. Ma in ogni caso, ponendoci di fronte a tali eventi, non ci siamo limitati a difendere ed a proteggere i colleghi da simili gravissimi attacchi, ma abbiamo cercato di comprendere le radici di tale fenomeno che pone a rischio uno dei cardini della convivenza civile. È, difatti, ben comprensibile il riflesso che la sola evocazione di determinate condotte lesive dei beni essenziali della persona possa determinare nell’opinione pubblica. Tuttavia riteniamo che sia allo stesso modo essenziale comprendere come gli elementari principi della convivenza civile, quali sono quelli della presunzione di innocenza (finalmente normativizzato nel nostro Paese) e del diritto di difesa, costituiscono un cardine ineliminabile di ogni stato di diritto. Presunzione di innocenza e diritto di difesa dovrebbero costituire valori condivisi che non possono e non devono mai retrocedere, neppure di fronte alla commissione del crimine più atroce.

È questo il traguardo inalienabile della nostra civiltà giuridica. Eppure quel riflesso istintivo, spesso non solo non controllato a sufficienza dall’informazione, ma stimolato e diffuso dal rancoroso flusso della comunicazione social, finisce per prendere il sopravvento, cancellando ogni segno di civiltà ed esondando anche in ambiti che si ritenevano al riparo dall’onda d’urto del risentimento popolare. È quanto accade alla gloriosa Università di Padova, rea, secondo gli accusatori, di avere solo “a parole” espresso solidarietà e cordoglio per la morte di Giulia Cecchettin, laureanda in quell’Ateneo, schierandosi “contro la violenza sulle donne”, in quanto avrebbe al tempo stesso tollerato che l’avvocato Giovanni Caruso, professore ordinario di Diritto Penale, assumesse la “difesa del suo assassino (reo confesso) Filippo Turetta”.

Si è diffusa, pertanto, una “petizione” affinché l’avvocato rinunci a quella difesa o, in caso contrario, l’Università si dissoci da tale “scelta totalmente inopportuna”, ciò in quanto detta in modo netto e crudo “non può starsi al tempo stesso con le vittime e con i carnefici”. A ben vedere, in questo caso la questione si fa più complessa, perché non si tratta di un brutale attacco personale che coinvolge solo la persona del difensore, bensì di un diverso atto di accusa che attinge una istituzione importante come un’Università, rea di consentire una simile contraddizione esistente fra difesa della vittima e difesa dell’accusato ed, in particolare, una cattedra di Diritto penale presso la quale svolge il proprio incarico accademico il difensore dell’indagato.

Dietro all’apparente geometrica linearità della censura, si cela in verità il segno di una sempre più diffusa polarizzazione, di quella estremizzazione delle posizioni basata sulla semplificazione della coppia “amico/ nemico”: o con me o contro di me. Un assioma che rinuncia alla complessità dei rapporti civili ed alla ricomposizione di quell’intreccio di valori apparentemente contrapposti che la modernità implica.

Una possibile sintesi che il padre della vittima, ha in questo caso, efficacemente riassunto con le sue parole, con le quali piuttosto che scavare solchi, ha cercato di comprendere la complessità indicando l’azione personale come “cruciale per rompere il ciclo”, evocando le molteplici responsabilità, che ci coinvolgono tutti “famiglie, scuola società civile, mondo dell’informazione”.

La Giustizia penale è inevitabilmente il luogo nel quale il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, la vita e la morte si confrontano di continuo. Ed è da questo che si dovrebbe partire, piuttosto che lanciare improbabili fatwe. Un’Università dovrebbe essere il luogo elettivo nel quale le contraddizioni si sciolgono, le visioni del mondo si confrontano, nel quale il manicheismo dovrebbe essere messo al bando, propugnandosi invece la valorizzazione dei diritti fondamentali della persona, l’inviolabilità del diritto di difesa, la comprensione, appunto, prima dell’esorcismo ed il reciproco riconoscimento, piuttosto che il pregiudizio. Non si può chiedere ad una Università di essere il contrario di tutto questo. Il difensore non difende il reato e non può essere mai sovrapposto al suo presunto autore. Il mestiere nobilissimo del difensore è difficile proprio perché implica il riassunto di queste contraddizioni e per queste ragioni non merita di essere schiacciato da simili pericolose banalizzazioni.