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Palazzo di Giustizia Corte Suprema di Cassazione in piazza dei Tribunali . Roma Giovedì 10 Aprile 2025 (foto Mauro Scrobogna / LaPresse) Palace of Justice Supreme Court of Cassation in Piazza dei Tribunali. Rome Thursday April 10 2025. (Photo by Mauro Scrobogna / LaPresse)
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 14833 del 2025, depositata lo scorso 28 marzo, ha rinviato avanti le Sezioni unite la questione dell’impugnabilità del rigetto della richiesta di ammissione ad istituti di giustizia riparativa.
Solo in apparenza la questione è di natura “meramente” tecnica ed è senz’altro riduttivo confinarla al solo ambito processuale.
Essa tocca in realtà il cuore della riforma Cartabia e la sua visione di una giustizia “più umana”, che non rinunci al dialogo tra vittima e autore del reato. È noto che l’articolo 129-bis del codice di procedura penale, introdotto nel 2022 e modificato nel 2024, consente – su richiesta delle parti o d’ufficio – l’invio a un centro per la giustizia riparativa. Ma cosa succede se il giudice rigetta questa richiesta?
I contrasti interpretativi che il Supremo collegio è chiamato a dirimere ruotano intorno alla individuazione della natura del rigetto: se lo si considera un atto non giurisdizionale, privo cioè di effetti concreti sul processo, dovrebbe discenderne la sua non impugnabilità. Alcuni collegi giudicanti, invece, hanno riconosciuto la possibilità di impugnare la decisione, specie nei casi in cui il mancato invio incida su diritti e interessi rilevanti come, ad esempio, la sospensione del processo per 180 giorni, prevista nei reati perseguibili a querela soggetta a remissione.
La Quinta Sezione, chiamata a decidere in un procedimento per atti persecutori, ha evidenziato il carattere “concreto e attuale” dell’interesse del ricorrente, sottolineando che l’eventuale percorso riparativo avrebbe potuto portare a un esito deflattivo o, quantomeno, a conseguenze rilevanti sul piano sanzionatorio (si pensi all’attenuante del risarcimento del danno ex articolo 62 n. 6 c.p. che valorizza la partecipazione a programmi di giustizia riparativa con la vittima del reato, conclusisi con esito riparativo).
Non solo: la Corte ha respinto l’idea che l’inattuabilità pratica dei centri riparativi – invocata dal Procuratore generale – possa giustificare il rigetto tout court della richiesta. Al contrario, la Corte ribadisce che il giudice ha l’obbligo di verificare concretamente l’esistenza e la disponibilità dei servizi riparativi, attualmente esistenti, previsti dalla normativa vigente, senza potersi limitare a rilevarne in modo astratto l’inoperatività.
Secondo questa prospettiva, in capo all’imputato (e forse anche al condannato) v’è qualcosa in più di un mero interesse a vedere equamente valutata la sua istanza di accesso all’istituto in questione. Infatti, se difficoltà o carenze organizzative dei servizi preposti non possono giustificarne una limitazione, si profila una posizione di diritto soggettivo pieno, la cui tutela coincide tendenzialmente col controllo giurisdizionale più tipico e proprio e che si esplica negli ordinari gradi del giudizio.
Ecco perché non si tratta di una questione solo processuale: a ben guardare la possibilità o meno di impugnare il rigetto della richiesta di ammissione alla giustizia riparativa è strettamente collegata alla funzione e alla concezione che attribuiamo alla pena, all’idea che la possibile sua estinzione non debba necessariamente discendere dalla più afflittiva espiazione.
Insomma, la giustizia riparativa, come si è osservato sin dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, può assumere una portata per certi aspetti rivoluzionaria del nostro sistema penale. E proprio il tema dell’impugnabilità o meno del suo rigetto costituisce una sorta di cartina al tornasole di una tale così dirompente portata.
Una lettura restrittiva, che neghi l’impugnabilità, tutelerebbe la più ampia e incontrollabile discrezionalità del giudice e così, al contempo, rischierebbe di svuotare di significato una delle innovazioni più ambiziose della riforma, perché, nei fatti, la giustizia riparativa rimarrebbe relegata ad un ambito residuale e solo astratto, quando, invece, deve tradursi in strumenti concreti, accessibili e tutelabili, perché la giustizia penale non deve essere solo punizione ma, precipuamente, responsabilità, dialogo, riparazione.
È anche questa la via che conduce, almeno in parte, a superare una concezione che finisce, tragicamente, con l’essere carcerocentrica e brutalmente retributiva.
È alle Sezioni Unite che ora spetta il compito di restituire alla giustizia riparativa il ruolo che le compete: non un’utopia normativa, ma uno strumento vivo, concreto, efficace. Una giustizia che non si limiti a punire, ma che sappia anche “ascoltare, comprendere e trasformare”.