La dichiarazione espressa (dal consigliere del Csm, ndr) in un contesto di pubblica riunione si pone certamente al di fuori del ristretto contesto consiliare cui si riferisce l’esimente in esame (articolo 32-bis L. n. 195/1958, ndr), laddove non sussista una occasionalità necessaria con l’esercizio della funzione consiliare, ma si ponga quale pretesto per un’affermazione diffamatoria nei confronti di una persona.

A stabilirlo è la terza Sezione civile della Cassazione, ordinanza n. 25876 del 27 settembre scorso, che ha respinto il ricorso di un ex laico del Consiglio superiore della magistratura, condannato a risarcire gli eredi di un magistrato. La toga - ora defunta - aveva citato in giudizio il laico per ottenere il risarcimento dei danni morali subiti a causa di dichiarazioni da lui ritenute diffamatorie e fatte durante un convegno giuridico.

L’allora laico, avvocato, infatti, aveva espresso pubblicamente giudizi negativi sulla capacità professionale della toga, che all’epoca aspirava alla carica di presidente del Tribunale di Melfi. In primo grado, il Tribunale aveva respinto la richiesta di risarcimento, ritenendo che il laico fosse coperto dalla non punibilità prevista per i membri del Csm per opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni. Tuttavia, la Corte d’Appello ha ribaltato la decisione, sostenendo che le opinioni del laico non erano state espresse durante una discussione consiliare, ma al termine di un convegno, cosa che rendeva l’esimente non applicabile. I giudici avevano così riconosciuto il delitto di diffamazione condannando l’avvocato a risarcire 15mila euro per il danno morale subito dalla toga.

Con il primo motivo, l’ormai ex laico contesta la decisione della Corte d’Appello, che ha ritenuto sussistente un «giudicato implicito» sul fatto diffamatorio, cioè che il reato di diffamazione fosse stato definitivamente accertato. Secondo il ricorrente, infatti, la Corte d’Appello ha interpretato erroneamente la sentenza di primo grado, considerando un’affermazione marginale come una conferma del reato. Secondo l’ex laico, la riproposizione delle sue difese sarebbe stata dunque sufficiente, senza la necessità di un appello incidentale.

La Cassazione ha però respinto questo argomento, affermando che, in assenza di un’impugnazione formale da parte dell’ex laico contro l’accertamento del fatto illecito, si è formato un giudicato implicito. Questo significa che la diffamazione è stata ritenuta provata in modo definitivo. Il secondo motivo del ricorso riguarda l’applicazione dell’esimente prevista dall’articolo 32-bis della legge n. 195/1958, che esonera i membri del Consiglio superiore della magistratura dalla responsabilità per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni.

Si tratta di una guarentigia a tutela «dell’indipendenza del Consiglio (e indirettamente, della magistratura) - si legge nell’ordinanza - “nella misura necessaria a preservarlo da influenze”, con la conseguenza che l’operatività dell’esimente deve restare circoscritta alle sole manifestazioni di pensiero, in concreto attinenti all’oggetto della discussione e strumentalmente collegate all'esercizio del voto». L’ex laico sostiene che la Corte d’Appello abbia erroneamente ritenuto inapplicabile questa esimente alle sue dichiarazioni, che a suo avviso erano funzionali al futuro esercizio del voto per l’assegnazione di un incarico direttivo a un magistrato.

Il Palazzaccio ha però bocciato tali critiche, ritenendo i motivi di impugnazione in parte inammissibili e in parte infondati. La Corte d’Appello, scrivono i giudici di legittimità, avrebbe infatti correttamente valutato che l’esimente si applica solo alle opinioni espresse nel corso di discussioni consiliari e strettamente legate all’esercizio del voto. Le dichiarazioni in questione, invece, sono state fatte in un convegno pubblico e non nell’ambito consiliare.

L’esimente non può estendersi a dichiarazioni fatte al di fuori del contesto consiliare e non collegate direttamente alle funzioni del Csm, così come sarebbe avvenuto in questo caso, perché ciò si tradurrebbe in una libertà indiscriminata a diffamare. Nel terzo e ultimo motivo del ricorso, l’ex laico contesta la quantificazione del danno per diffamazione stabilita dalla Corte d’Appello: secondo il ricorrente sarebbero state violate le norme di diritto in materia di risarcimento del danno, decidendo in modo arbitrario e senza adeguata prova del pregiudizio subito dalla parte offesa. In particolare, l’ex laico critica la decisione della Corte di liquidare il danno in via equitativa (cioè secondo discrezione), senza sufficienti prove concrete del danno non patrimoniale subito.

La Cassazione ha dichiarato inammissibile il motivo, spiegando che la Corte d’Appello ha correttamente applicato i principi del diritto, ricorrendo al notorio e alle presunzioni per valutare il danno subito dalla vittima. Ha considerato la gravità dell’offesa e il contesto sociale, nonostante l’assenza di risonanza mediatica, e ha valutato equo un risarcimento di 15mila euro. Inoltre, la valutazione equitativa del danno è una decisione di merito del giudice e non può essere censurata in sede di legittimità se è congruamente motivata e il potere di liquidare il danno equitativamente è discrezionale e previsto dal codice civile (articoli 1226 e 2056), soprattutto quando è difficile determinare con precisione l’ammontare del danno.