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Non basta essere affiliati per essere condannati per mafia. È questa, in estrema sintesi, la motivazione con cui il gup di Milano Guido Salvini ha condannato con rito abbreviato a 12 anni di carcere Luigi Aquilano, genero del boss di 'ndrangheta Antonio Mancuso. La procura, rappresentata dalla sostituta Alessandra Cerreti, di anni di reclusione ne aveva chiesti 18, contestando all'impuntato il 416 bis, il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ma per Salvini, come del resto per la gip Lidia Castellucci che aveva firmato l’ordinanza di custodia cautelare per Aquilano, quell’accusa non poteva reggere. E infatti non ha retto a giudizio, nonostante sia stato riconosciuta ad Aquilano l’aggravante dell’articolo 7, il metodo mafioso, per una paio di circostanze estorsive.
Lo scontro andato in scena pochi giorni fa tra la procura di Milano e il gip Tommaso Perna, che ha negato l’arresto di 140 persone richiesto sempre da Cerreti e dall'aggiunta Dolci, non è dunque il primo registrato in quegli uffici giudiziari. Il problema, probabilmente, riguarda l'analisi di fondo del fenomeno mafioso. Per gli inquirenti basta mettere le mani su un affiliato per ipotizzare l'esistenza di un sistema, per i giudici no. È come se a fronteggiarsi fossero due approcci e due metodi opposti della lotta al crimine organizzato: uno deduttivo (quello dei pm) e uno induttivo (quello dei giudici). O almeno questo sembra essere l’appunto mosso dal gup all’inchiesta della procura: un processo non può scaturire da una teoria ma dai fatti in esame. Che non significa ovviamente negare l’esistenza e il radicamento delle mafie al Nord Italia e in Lombardia in particolare.
Ma per Salvini l'affiliazione conta il giusto se poi non commetti reati in virtù della tua appartenenza criminale e soprattutto se non è dimostrata l’esistenza di una “locale” di ’ndrangheta di riferimento sul territorio, come nel caso di Aquilano. Per essere mafiosi bisogna essere percepiti come dei mafiosi e agire in virtù del proprio vincolo associativo. Perché non è detto che «anche un “affiliato” in Calabria, soprattutto in un territorio vasto e pieno di “occasioni” illecite come Milano non possa commettere reati “generici”, in particolare, come nel caso in esame, nel campo dello spaccio delle sostanze stupefacenti, autonomamente e per un diretto interesse personale», scrive Salvini nelle motivazioni della sua sentenza. Se c’è mafia, in altre parole, devi dimostrarlo. Perché «Luigi Aquilano così come anche Salvatore Comerci (altro imputato, ndr) non sono sic et simpliciter accusati di far parte della ’ndrangheta senza accezioni territoriali ma di aver costituito a Milano una associazione stabile e operativa, in sostanza una “famiglia” o qualcosa di simile che, pur con forti margini di autonomia spesso decisamente rivendicati, costituiva una articolazione riconosciuta dalla casa madre di Limbadi», scrive ancora il gup nelle motivazioni.
Così, i contatti con la famiglia Mancuso, che nell’inchiesta di Cerreti diventano determinanti per dimostrare l’esistenza di un’associazione mafiosa, per il gup Salvini sono «contatti dovuti ai vincoli spesso di stretta parentela». Dalle indagini «non si evincerebbe alcuna “alleanza” o “collegamento” giuridicamente rilevante» con la cosca. «Non sarebbe emerso infatti alcun raccordo funzionale con la cosca Mancuso, proprio perché limitato ai rapporti familiari». E i legami di parentela non possono rappresentare in sé «una estrinsecazione dell’originaria struttura, dovranno quindi essere verificati con rigore tutti i presupposti del reato di cui all'art. 416- bis c. p. tra cui, appunto, l'esteriorizzazione del metodo».
Affermare il contrario, invece, per il giudice Salvini, «significherebbe incasellare a forza in uno schema qualsiasi anche autonoma attività criminosa, che rappresenta del resto uno stile di vita di molti soggetti». Un esempio concreto? Il traffico di sostanze stupefacenti. «Ponendo attenzione al concreto svolgimento dei traffici di sostanze stupefacenti, quelli realizzati descritti nei capi d’imputazione e le importazioni di quantità maggiori di hashish o di marijuana rimaste allo stato di progetto, può notarsi che i soggetti con cui Aquilano opera come complici, fornitori o intermediari cambiano in ogni episodio». Per Salvini è la dimostrazione che «Aquilano si muovesse secondo necessità e non in base ad una programmazione diretta e concordata con una realtà mafiosa sovrastante chiamata a dare la sua autorizzazione». E proprio per questo diventa impossibile «affermare la sussistenza dell’associazione di stampo mafioso».
Per condannare qualcuno, ovviamente, servono prove da sostanziare. E non sempre la tesi di un pm basta a “portare a casa” il risultato. Una realtà che nel giro di poche settimane la Dda di Milano ha iniziato comprendere. Davanti a un gip, come davanti a un gup.