Giuliano Amato non è Pier Paolo Pasolini, non perché sia privo di cultura, soprattutto giuridica, ma perché non può buttare lì il suo “Io so, ma non ho le prove”, dimenticando i suoi ruoli politici e di governo negli anni in cui, in un giorno, il 27, in un mese, giugno, in un anno, il 1980, esplose in cielo il DC9 Itavia con il suo carico di 81 morti. Chi è stato ministro e presidente del Consiglio è molto di più e molto di meno di un intellettuale come Pasolini, che attribuì a se stesso, nel nome del proprio ruolo di uomo di cultura, il compito di rivelatore di “verità”, storiche, politiche e giudiziarie.

Già, le stragi in Italia. Ci fu chi, come il grande giornalista Luigi Pintor, e in parte anche un grande Capo di Stato come Francesco Cossiga, era convinto della “casualità” di certe bombe, prima di tutto quella di piazza Fontana a Milano del 1969. E così per la strage di Bologna. Convinzione radicata in una ragione della politica. È troppo fumoso e generico attribuire ogni volta, spesso al terrorismo di destra e ai servizi segreti o alla P2, l’uso delle bombe per indurre cittadini spaventati a consistenti spostamenti elettorali.

È la teoria che sta dietro alla fortunata formula della “strage di Stato” della sinistra più estrema degli anni Settanta. Ma anche alla retorica antifascista molto da “rossa Emilia” della vulgata sulla strage del 2 agosto 1980. Per arrivare ai pubblici ministeri di Firenze e alle loro indagini nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri, che avrebbero seminato sangue, morti e terrore per far fuori il governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 e conquistare Palazzo Chigi.

È però evidente che un conto è dire e scrivere “Io so perché sono un intellettuale”, quindi parlo di delitti e bombe anche senza prove né indizi, mentre diverso è se il ruolo istituzionale ti ha dato la possibilità di essere bocca della verità, se hai avuto gli strumenti, se parlavi da uno degli scranni più alti. Perché allora abbiamo il dovere di crederti, se lo hai giurato in un’aula di tribunale dove si giudica nel nome del popolo italiano, o se lo hai garantito in Parlamento rispondendo all’interrogazione di un eletto dai cittadini, o se lo hai assicurato in una Commissione bilaterale che ha gli stessi poteri requirenti dell’autorità giudiziaria. Se questo fosse stato il percorso, con chiarezza, lealtà e coerenza, ecco che avrebbe senso l’intervista che Giuliano Amato ha rilasciato sabato scorso alla giornalista Simonetta Fiori di Repubblica. A una penna colta di autrice di libri, non a un complottista di professione. Singolare scelta dell’interlocutore, per scagliare un messaggio politico così dirompente. Ma forse questa non era l’intenzione, a meno che non siamo costretti a dare ragione a Marco Travaglio. Il quale, ignorando il fatto fisiologico per cui tutti, se si è fortunati, prima o poi si invecchia, attribuisce a Giuliano Amato l’intervista, che lui chiama “non rivelazioni” (invidioso?), come “una sorta di elisir di lunga vita”, una specie di “parlo dunque esisto”. Ma sarebbe poco adatto al personaggio.

Ovvio che la persona intervistata non è responsabile dell’impaginazione né dei titoli che svettano sull’articolo. Però, se colui che, negli anni immediatamente successivi al 27 giugno del 1980, fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e successivamente Capo del governo dice, sia pure quarant’anni dopo, “ecco la verità su Ustica”, vuol dire che il suo “Io so” non è il pasoliniano “non ho prove né indizi”, ma il sapere certo di chi parla ex cathedra.

Non è importante sapere che cosa c’è “dietro” le sue dichiarazioni, lasciamo questo compito ai complottisti di professione. A partire, anche se spiace sempre un po’ dirlo nei confronti dei parenti delle vittime, dall’onorevole Daria Bonfietti. Che non mostra mai avere dubbi sul fatto che la verità dei fatti sia sotto gli occhi di tutti. Ma non si può tralasciare, prima ancora, la parte tecnica della ricostruzione fatta dalle inchieste giudiziarie, come ha ricordato ieri in un’intervista al Corriere della Sera l’ex Pg Giovanni Salvi, che fu pm nell’inchiesta su Ustica dal 1990 al 2002.

Non è stata trovata la prova, si dice nelle carte, dell’impatto esterno che il DC9 avrebbe ricevuto da un missile o altro. D’altra parte anche la teoria della bomba piazzata all’interno dell’aereo ha dato risultati nelle perizie quanto meno contraddittori. A questa ipotesi, a quanto pare, credono o hanno creduto solo gli ufficiali dell’aeronautica, che sono stati sospettati di depistaggio e poi processati e assolti. Tutti gli altri paiono aderire all’ipotesi lanciata da Cossiga nel 2008 e che fece riaprire quelle indagini non ancora chiuse, ma che parevano avviate all’archiviazione, fino alle nuove dichiarazioni di Amato. E cioè che, come lui stesso ripete nella sua recente intervista, «la versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Ghedddafi, in volo su un Mig della sua aviazione».

L’ errore, il caso, dunque. Con un pizzico di veleno che non vogliamo lasciare inosservato. Perché questo “Dottor Sottile”, che andrebbe ribattezzato il “Dottor Perfido”, tira due siluri a due ex amici che non possono difendersi: a Craxi, cui attribuisce un ruolo impossibile mentre era segretario del Psi senza incarichi di governo, e a Cossiga, definito “bipolare”. Quasi come se avesse voluto, a tanti anni di distanza, fare una ricostruzione storica a modo suo. Con ogni figurina rimessa al suo posto. Non processi, ma storia. Finalmente tutta sua.