Giusto tutelare con un reato ad hoc le vittime di violenza che abbiano subito una lesione al viso, ma le pene previste sono troppo severe. È questa la conclusione a cui è giunta la Consulta con la sentenza numero 83 depositata oggi, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 583-quinquies del codice penale, inserito dal cosiddetto “Codice rosso” con la legge numero 69 del 2019. Una decisione che non passerà inosservata a chi ha promosso e sostenuto la norma che ha introdotto il reato di “deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso” sulla scia dei casi di cronaca che hanno proprio questa condotta come forma ricorrente di violenza contro le donne. 

Nel dettaglio, il primo comma dell’articolo è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata, reclusione da 8 a 14 anni, sia diminuita, in misura non eccedente un terzo, quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità». Il secondo comma dello stesso articolo, spiegano i giudici, «è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui stabilisce che la condanna o il patteggiamento per il reato in questione comporta l’interdizione automatica e perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno, anziché prevedere che tale pena accessoria sia applicabile facoltativamente dal giudice, in base agli ordinari criteri discrezionali e nel rispetto del limite legale di durata massima di 10 anni».

Per la Corte, che ha accolto le censure sollevate dai gup dei Tribunali di Taranto, Bergamo e Catania, «il carattere eccessivamente rigido del trattamento sanzionatorio disposto dalla norma in scrutinio» viola gli articoli 3 e 27, commi primo e terzo, della Costituzione, quanto ai principi di proporzionalità, individualizzazione e finalità rieducativa della pena. Ma questo non vuol dire che il Codice rosso, voluto dalla leghista Giulia Bongiorno durante il governo Conte I, non avesse uno scopo “lodevole”. I giudici, infatti, sottolineano che «l’inasprimento sanzionatorio operato dal legislatore con la trasformazione dello sfregio e della deformazione del viso da circostanze aggravanti del reato di lesione a fattispecie delittuosa autonoma corrisponde a una valida ratio di tutela della persona, attesa la dimensione relazionale e identitaria del volto di ciascuno». «Tuttavia, richiamata la propria giurisprudenza sulla necessità costituzionale di una “valvola di sicurezza”, che consenta al giudice di moderare l’applicazione di pene edittali di notevole asprezza, la Corte ha ritenuto che la stessa necessità si ponga per il nuovo titolo di reato, la cui ampiezza descrittiva è in grado di abbracciare anche lesioni relativamente modeste, talora procurate in contesti di aggressività minore e occasionale, e senza dolo intenzionale, come dimostrato dalla varietà delle imputazioni nei giudizi a quibus».

Nel caso di Taranto, ad esempio, si fa riferimento ad “una cicatrice chirurgica irreversibile, sotto la palpebra dell’occhio destro, lunga cinque-sei centimetri e larga un millimetro”. La vicenda di Bergamo riguarda “uno sfregio permanente del viso «privo di efficacia deformante»”, mentre il gup di Catania sottolinea la mancata distinzione tra il primo tipo di lesione (deformazione) e il secondo (sfregio).

Prima del Codice rosso, che ha creato appunto una fattispecie autonoma, lo sfregio permanente del viso integrava la circostanza aggravante del reato di lesione personale, per la quale era prevista la pena della reclusione da sei a dodici anni. Ora la Corte interviene per stabilire che «al cospetto di un minimo edittale molto elevato e di una gamma multiforme di condotte punibili, la mancata previsione di un’attenuante comune per i fatti di lieve entità determina il rischio di irrogazione di una pena eccessiva in concreto, quindi insensibile al giudizio sulla personalità del reo e inidonea allo scopo della sua risocializzazione».