«Se hanno culture diverse per loro il reato sparisce – Quelle assoluzioni di africani in nome della dottrina propugnata da Md, il sindacato delle toghe rosse»: questo il titolo di un articolo di ieri de il Giornale che va all’attacco di Magistratura democratica che si farebbe sostenitrice di una politica assolutoria nei confronti dei «reati culturalmente motivati». Secondo il quotidiano, se a commettere un pestaggio in famiglia o uno stupro è un italiano questo sarebbe condannato dai giudici di sinistra; al contrario, se l’autore fosse un immigrato sarebbe assolto. A giustificare questo modus operandi ci sarebbe una vera e propria ideologia delle “toghe rosse”, tanto è vero – scrive il Giornale – che sulla rivista di Md, Questione Giustizia, si legge: «“Quando gli immigrati giungono nel nostro Paese, trovano reati diversi rispetto a quelli previsti nel loro Paese d'origine”. E ancora: “L'immigrazione diventa, per il nostro Paese, fonte di pluralità di culture”». Da qui poi un elenco di sentenze che dimostrerebbe la teoria propugnata dalla testata diretta da Alessandro Sallusti. Proviamo però a fare chiarezza. Per questo abbiamo contattato l’autore dell’articolo, pubblicato su Questione Giustizia, Fabio Basile, che non è un magistrato ma un Ordinario di diritto penale all’Università degli Studi di Milano. «Quello scritto nel 2017 e citato dal Giornale ieri è un contributo di sintesi di una monografia molto più ampia che avevo sviluppato anni prima. Non nasce per la rivista Questione Giustizia né mi è stato commissionato da una certa fetta di magistratura». Andando nel merito, poi, ci spiega Basile: «il compito del giudice penale è valutare il singolo fatto e l’eventuale responsabilità di un singolo autore, non quello di condannare una cultura». Quando si trovano a dover emettere una sentenza «i giudici cercano le ragioni all’origine del gesto, tra cui la cultura dell’imputato che deve essere adeguatamente provata in giudizio». Per il docente «è assurdo» quanto letto sul Giornale che «ha riportato in maniera scorretta e decontestualizzata» alcune decisioni: «nel mio articolo non si teorizza affatto di non punire stupri, mutilazioni genitali, o qualsiasi reato lesivo dei diritti fondamentali di una persona solo perché l’imputato è un immigrato». Quando parliamo di “reati culturalmente motivati” per Basile ci riferiamo ad una situazione per cui «quando gli immigrati giungono nel nostro Paese, trovano reati diversi o diversamente strutturati rispetto a quelli previsti nel loro Paese d’origine; e tale diversità è, almeno in parte, dovuta alla diversità della cultura (la cultura italiana), che impregna le norme penali qui vigenti, rispetto alla cultura (la cultura albanese, marocchina, cinese, egiziana, pakistana, siriana, etc.) del loro Paese d’origine». A tal proposito, i casi messi sotto la lente di ingrandimento da ‘il Giornale’ sono tre. Primo: assoluzione nel 2012 da parte della Corte di appello di Venezia di due genitori nigeriani accusati di aver sottoposto le loro figlie alle mutilazioni genitali. Secondo: annullamento senza rinvio da parte della Cassazione nel 2011 di una sentenza di condanna di una madre nigeriana di religione cattolica che aveva fatto circoncidere il figlio. Terzo: nel 2007 sempre Piazza Cavour, nel confermare la condanna per violenza sessuale di un marocchino verso la moglie nella prima settimana di un matrimonio combinato dalle famiglie, gli concede l’attenuante della ‘minore gravità’. Ora, andare nel dettaglio di ogni singola decisione necessiterebbe di uno spazio che qui non abbiamo ma rimandiamo alla fonte (https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/i-reati-cd_culturalmente-motivati-commessi-dagli-immigrati_possibili_soluzioni-giurisprudenziali_425.php). Basile ci chiarisce però, ad esempio, «che nel primo caso non si era in presenza di una mutilazione rilevante ai sensi del primo comma dell’art. 583-bis c.p., ma di un’incisione superficiale sulla faccia antero-superiore del clitoride, della lunghezza di circa 4 mm, riconducibile, semmai, alla ben meno grave previsione del secondo comma dell’art. 583-bis. I genitori avevano sottoposto le neonate alla aruè al fine di soddisfare una funzione di purificazione, di umanizzazione, e per sancire un vincolo identitario, e non già al fine (richiesto, invece, dalla norma incriminatrice in termini di dolo specifico) di menomarne le funzioni sessuali, compromettendo il desiderio o la praticabilità dell’atto sessuale». In pratica, attraverso una accorta ponderazione di tre variabili - livello di offensività del fatto commesso; natura della norma culturale osservata; biografia del soggetto agente - , è possibile per Basile approdare, in presenza di determinati presupposti, «ad un cauto e circoscritto riconoscimento benevolo del fattore culturale da parte dei giudici: riconoscimento il quale risulta equo e ragionevole ogni qual volta la realizzazione del reato costituisca davvero l’esito di un conflitto normo-culturale ancora irrisolto, di tal ché il reato commesso dall’immigrato di cultura diversa potrebbe effettivamente risultare meno rimproverabile rispetto ad uno stesso identico fatto commesso da un imputato di cultura italiana». Conclude l’accademico: «possiamo considerare certe pratiche corrette o meno. Ma non è questo il punto. Il punto è sperare di veicolare un messaggio: ossia che le sentenze non diventino un ostacolo per un processo di inclusione. Eventualmente è compito del legislatore criminalizzare certi comportamenti». Per Nello Rossi, direttore di Questione Giustizia, «le pacate e argomentate considerazioni del professor Basile fanno giustizia del malvezzo di attribuire a non meglio precisati giudici di Md tutte le sentenze ritenute sgradite e non condivisibili. I giudici penali non devono solo accertare un fatto penale ma anche sforzarsi di capire chi lo ha commesso e perché. Questo vale per tutti gli imputati, italiani e stranieri». Infine, per Nello Rossi, «ovviamente non si può escludere un reato invocando la cultura di origine dell’imputato ma la comprensione di tale cultura può contare ai fini del corretto inquadramento giuridico del fatto, di eventuali attenuanti e della misura della pena».