«Questo processo mi ha lasciato un certo senso di disillusione nei confronti della giustizia, che ho scoperto non corrispondere all’ideale che avevo in mente. Il verdetto? È stato emesso fuori dal perimetro dello Stato di diritto». A parlare è l’avvocata Olivia Ronen, ospite del Dubbio al Salone del libro di Torino. La penalista francese ha difeso Salah Abdeslam, principale imputato nel processo sugli attentati di Parigi del 13 novembre 2015. Unico membro del commando rimasto in vita, Abdeslam è condannato alla pena più dura prevista dall’ordinamento francese: l’ergastolo “incomprimibile”. Quello che Robert Badinter - l’ex guardasigilli francese che portò avanti la battaglia per l’abolizione della pena di morte di morte nel 1981 - definì un «supplizio».

Avvocata Ronen, ha avuto dei dubbi di natura “etica” o professionale prima di accettare l’incarico?

Quando mi hanno affidato il dossier mi sono posta qualche dubbio sulla mia giovane età ma non ho mai avuto alcuna remora etica o professionale nell’assistere Salah Abdeslam. Quando ho scelto questa professione, e in particolare il diritto penale, sapevo bene che mi sarei potuta trovare a “difendere l’indifendibile” e lo ho anche sperato. Più un dossier sembra complesso, più la ricerca delle argomentazioni si “allontana” dall’evidenza, più l’esercizio è interessante. Un caso come questo rappresenta il parossismo della difesa penale. Per questo non ho avuto nessuna reticenza.

Qual è stata la difficoltà più grande che ha incontrato?

La difesa penale d’urgenza. Sono stata nominata soltanto nove mesi prima dell’apertura del processo, ho quindi dovuto organizzarmi in fretta e studiare cinquecento tomi, circa un milione di pagine, costituire una squadra difensiva (Martin Vettes, collega e amico ha accettato questa sfida). E imparare a conoscere il mio cliente. Ho dovuto fare tutto questo senza abbandonare altri casi che stavo seguendo, è stato un lavoro molto intenso. Sotto un altro aspetto che intreccia il lato professionale e quello personale, le cinque settimane di deposizione delle parti civili sono state estenuanti. Anche se non hanno scalfito la volontà di difendere Abdeslam, resteranno nella mia memoria per molto tempo. Un’esperienza umanamente ricca, molto forte e dura.

Già dall’apertura del processo, dopo le prime dichiarazioni in aula di Abdeslam, si è parlato della cosiddetta “difesa di rottura” teorizzata dall’avvocato francese Jacques Vergès. Lei che ne pensa?

Non sono affatto d’accordo con questa espressione. Una difesa di rottura è una strategia che consiste nel contestare la legittimità della Corte e dell’intero sistema giudiziario. Se Salah Abdeslam ha rivendicato nella prima udienza la sua affiliazione allo Stato islamico non ha mai negato la legittimità dei suoi giudici. Dal banco della difesa, io e Martin Vettes, siamo stati attenti a evitare connivenza e rottura. Volevamo una difesa efficace, umana e intransigente. Ciò non toglie, contrariamente a quanto affermato dal presidente della Corte d’Assise durante i dieci mesi di udienze, che è stato un processo decisamente politico, come dimostra la sentenza emessa. La quale ignora a tal punto ciò che è stato detto e fatto durante il processo, che avrebbe potuto essere scritta prima. Difficile credere che tutto non sia stato deciso in anticipo.

Lei che ricordo ha di quella notte del 13 novembre 2015?

La mia storia è un po’ particolare, poiché all’epoca frequentavo ogni week- end i luoghi colpiti dagli attentati. Avevo 25 anni e stavo per prestare giuramento, ma prima di infilare la toga volevo conoscere un po’ il mondo e mi trovavo dall’altra parte del pianeta, ma l’ondata di choc è arrivata fino lì, e anche se ero lontana sono rimasta molto provata.

Nel suo libro “V13” Emmanuel Carrère scrive: «Fra il momento in cui entreremo in quell’aula di tribunale e quello in cui ne usciremo, qualcosa in noi tutti sarà cambiato». Vale anche per lei?

Sì, siamo usciti cambiati da quell’aula, da quei dieci mesi a porte chiuse. Per quel che mi riguarda è stata un’esperienza professionale preziosa, anche dal punto di vista umano. Ma quel che si è radicato dentro di me è una specie di disillusione nei confronti della giustizia. Non corrisponde all’ideale che avevo in mente.

Lei ha detto: «Non penso che questo processo sia una vittoria dello Stato di diritto o della democrazia sulla barbarie». Perché?

Lo scopo delle organizzazioni terroriste è seminare il caos nelle democrazie, di far perdere loro l’equilibrio e i punti di riferimento allo scopo di farle crollare. Una vittoria della democrazia sarebbe stato un processo alla fine del quale fossero stati rispettati e riaffermati con forza i principi del diritto. La presunzione di innocenza, l’onere della prova che spetta all’accusa, la proporzionalità delle pene, l’interpretazione stretta delle leggi penali. Se queste regole fossero state applicate avrebbero portato la Corte a esprimere un verdetto diverso nei confronti di tutti gli imputati. Questi principi fondamentali, per alcuni una guida filosofica o semplicemente strumenti di buon senso, sono stati spazzati via dai magistrati. La sentenza è stata emessa fuori dal perimetro dello Stato di diritto.

Riguardo alla sua difesa, invece ha detto: «Non si difende una causa, ma degli individui, anche se a volte si tenta di escludere qualcuno dall’umanità, questa persona ne fa parte quanto noi». E come è stato sottolineato, durante il processo si è sempre rivolta al suo assistito per nome.

Non credevo che questo dettaglio sarebbe stato notato a tal punto, comunque sì, era una volontà di riumanizzarlo. Tutti lo conoscevano come Adeslam, il sopravvissuto del commando del 13 novembre 2015, la gente doveva abituarsi a parlare di Salah perché si era arrivati al punto di dimenticare che quell’uomo non aveva ucciso nessuno. Salah Abdeslam è l’unico membro del commando rimasto in vita.

Secondo lei è diventato un “simbolo” per la giustizia?

Certamente. Nel verdetto non si è tenuto conto delle irregolarità dell’inchiesta belga (che componeva il 90 per cento del dossier), delle affermazioni senza fondamento o ancora delle acrobazie dei giudici, oppure in modo più generale del fatto che le udienze erano riuscite a spezzare l’immagine del mostro sapientemente costruita durante sei anni di inchiesta. Salah Abdeslam è stato condannato a una pena esemplare, l'ergastolo “incomprimibile” (senza diritto alla libertà vigilata), perché è un simbolo. I magistrati si sono fermati lì, senza tentare di andare oltre, è un vero peccato.

La pena all’ergastolo incomprimibile è stata pronunciata appena quattro volte dal 1994, Cosa pensa di queste condizioni di detenzione?

Prima d’ora ha riguardato casi di violenza e omicidio di bambini, persone la cui psicopatia era dimostrata. Anche se mi aspettavo una pena pesante per il mio cliente, non credevo che saremmo arrivati a quel che Robert Badinter (avvocato ed ex ministro della giustizia di Mitterrand) aveva qualificato come “supplizio” durante il discorso in cui nel 1981 annunciava la fine della pena di morte. A processo speciale, pena speciale. Ed ecco che l’idea di giustizia scompare.