È un piccolo spiraglio. Ma può essere l’inizio di un capovolgimento radicale degli stereotipi antimafia. Secondo la Cassazione, l’influenza del crimine organizzato su un’azienda non può essere desunta dalla semplice parentela fra persone ritenute “colluse” e gli amministratori dell’impresa.

Dare per scontato che un imprenditore con familiari “scomodi” sia invariabilmente un prestanome di questi ultimi è dunque arbitrario, anzi illegittimo. È il senso di una sentenza (la 15156 del 2023) depositata dalla prima sezione penale della Suprema corte (presidente Monica Boni, relatore Raffaello Magi) poco meno di un mese fa, l’11 aprile. Vacilla finalmente il “comodo” (per chi vi ricorre) principio della “familiarità” che determina di per sé contiguità o addirittura “intraneità” al sistema criminale, principio in virtù del quale sono sottoposte a sequestro e confisca migliaia di aziende.

Nello specifico, la Cassazione ha accolto il ricorso con cui una giovane imprenditrice calabrese (M. D.), già destinataria di un’interdittiva, reclamava di poter accedere almeno alla cosiddetta “messa alla prova aziendale”: si tratta del controllo giudiziario attivato su volontà dell’imprenditore, istituto introdotto nel 2017. Non siamo insomma di fronte a una rivoluzione dei comunque rigidissimi criteri delle misure antimafia: si tratta di una concessione minima, ispirata al diritto e alla logica. La sentenza 15156 dell’11 aprile ha semplicemente ritenuto di poter accogliere la richiesta di “messa alla prova” nonostante il nonno della titolare, M. S., avesse avuto in passato rapporti con la cosca dei Mancuso. Secondo gli ermellini non si può negare, all’imprenditrice in questione, la possibilità di smentire l’ipotesi di subire, seppur in modo indiretto, l’influenza “per interposto parente” della ’ndrangheta.

Va detto che tale orientamento era già affiorato in qualche precedente decisione della Suprema Corte, in particolare con la sentenza 31831 del 2021, evocata ora nella pronuncia 15156 quando si ribadisce che «il condizionamento stabile delle attività di impresa, in caso di familiari non conviventi ritenuti portatori di pericolosità, non può essere affidato alla presunzione semplice derivante dalla complicità familiare». L’affermazione sembra particolarmente adeguata al caso della sentenza di aprile: la giovane imprenditrice, M. D., si era vista prima applicare dal prefetto l’interdittiva e quindi negare dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Catanzaro l’accesso al controllo giudiziario previsto dalla riforma del codice antimafia promossa dall’allora guardasigilli Andrea Orlando (la legge 161 del 2017), la “messa alla prova”, appunto. Tutto perché il nonno della ricorrente, M. S., era stato a propria volta destinatario di misure di prevenzione, per pregresse relazioni con la cosca dei Mancuso.

Ma i magistrati di Catanzaro, sia in primo che in secondo grado (nel 2021 e nel 2022), erano stati del tutto indifferenti a un dettaglio, ampiamente segnalato dalla difesa della giovane imprenditrice nel ricorso in Cassazione: il nonno “scomodo” si era visto revocare le misure antimafia già nel lontano 2014, anche in virtù della propria “collaborazione” con i pm, grazie alla quale erano state condotte operazioni anti-’ndrangheta nel Vibonese e nel Lametino. E la prima sezione penale di piazza Cavour è netta nel far notare come la Corte d’appello non abbia tenuto «in debito conto» la decisione con cui la sezione “Misure di prevenzione del Tribunale aveva ritenuto «cessata la condizione di pericolosità sociale» di M. S., il nonno della ricorrente.

Cade, nella pronuncia della Cassazione, anche l’automatismo per cui un giovane imprenditore meridionale che abbia qualche parente coinvolto, anche solo in passato, in indagini antimafia, è certamente un “prestanome”, una figura di comodo che il parente colluso utilizza per tenere vive attività comunque collegate al crimine organizzato. Non può esserci un pregiudizio assoluto di questa natura, dicono gli ermellini: la Corte d’appello, fa notare la Cassazione, «non basa le proprie considerazioni circa l’assenza di capacità gestionale in capo a M. D. (l’imprenditrice ricorrente, nda) su argomentazioni fattuali, ma desume il dato storco», cioè la «stabile ingerenza di M. S., (il “nonno” ritenuto in passato contiguo ai Mancuso, nda) dalla ipotizzata riproposizione di un modus agendi constatato in occasione di una precedente procedura di prevenzione», che però si era conclusa nel 2018 e riguardava «altre compagini societarie». E in questo modo, la Corte d’appello di Catanzaro, scrive la Cassazione, offre «un esempio di fallacia per generalizzazione». Esattamente l’esiziale approccio che falcidia migliaia di imprese meridionali. E ancora, la presunzione per cui chi ha un parente macchiato dalla più o meno accertata vicinanza alle cosche ne sia senz’altro un prestanome non può di per sé “condannare” un’azienda, nel momento in cui i giudici si basano «su semplici congetture», su «ipotesi fondate su mere possibilità».

È un segnale. Certamente non basta a realizzare un definitivo cambio di rotta della magistratura rispetto ai pregiudizi sulle imprese del Sud. Solo per citare una pronuncia di pochi mesi antecedente, basta ricordare che il Tar di Reggio Calabria, lo scorso 20 gennaio, aveva rigettato un ricorso presentato da un altro imprenditore avverso l’interdittiva inflittale dal prefetto con la seguente motivazione: «L’interdittiva antimafia costituisce una misura preventiva che prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che ne sono colpiti», che «si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia» e che «per la sua natura cautelare e la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la prova di un fatto ma solo la presenza di una serie di indizi, in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose». E proprio per questo, secondo il Tar Calabria, «deve ritenersi esclusa ogni presunzione di irrilevanza dei rapporti di parentela, ove essi, per numero e qualità, risultino indizianti di una situazione complessiva tale da non rendere implausibile un collegamento, anche non personale e diretto, tra soggetti imprenditori e ambienti della criminalità organizzata». Ragionamento in perfetto contrasto con quanto affermato dalla sentenza 15156 della Cassazione. Che però rappresenta un passo avanti impossibile da ignorare per qualsiasi magistrato, amministrativo o penale che sia.