La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi su un tema cruciale per le indagini antimafia e di criminalità organizzata: l’utilizzabilità delle intercettazioni ambientali effettuate in un domicilio già monitorato con microspie installate in precedenza. Con la sentenza n. 29735 del 26 agosto 2025, depositata dalla Sesta sezione penale, i giudici hanno respinto la gran parte dei ricorsi proposti nel processo contro il cosiddetto clan Silenzio, radicato nell’area di Napoli, fissando un principio destinato a fare giurisprudenza.

La questione ruotava attorno a un’eccezione difensiva precisa: secondo i legali degli imputati, le conversazioni registrate in un appartamento sarebbero state inutilizzabili perché mancava un nuovo decreto di autorizzazione all’installazione delle microspie. L’impianto tecnico, infatti, era stato collocato in casa nel corso di un diverso procedimento e successivamente “riattivato da remoto” nell’ambito del fascicolo che riguardava l’associazione camorristica. Gli avvocati avevano richiamato anche una nota tecnica del gestore del sistema, datata agosto 2020, che segnalava anomalie nel funzionamento delle apparecchiature. A loro avviso, quel documento avrebbe dovuto inficiare la validità di tutte le captazioni.

La Suprema Corte, però, ha demolito l’impostazione difensiva. «Nessun effetto sull’utilizzabilità delle captazioni assume il fatto che l’installazione delle microspie non fosse avvenuta per mezzo di un differente decreto», scrivono i giudici. Per la Cassazione, infatti, per la riattivazione da remoto non era necessario la previa acquisizione del provvedimento di autorizzazione. In altre parole, se l’ingresso in casa per collocare l’apparato è già avvenuto sulla base di un decreto valido, non serve ripetere la procedura quando si tratta soltanto di riaccendere e utilizzare il dispositivo con un nuovo provvedimento di intercettazione.

Non solo. La nota tecnica richiamata dalle difese riguardava malfunzionamenti sopravvenuti e non aveva alcuna incidenza sulle conversazioni effettivamente utilizzate per sostenere l’accusa. Quelle registrazioni, infatti, erano tutte anteriori alla segnalazione di agosto 2020. La Corte di Cassazione ha colto così l’occasione per ribadire alcuni punti fermi. Le conversazioni intercettate in modo legittimo hanno pieno valore probatorio. Non serve, come accade invece per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, un sistema di riscontri esterni “rafforzati”. Serve piuttosto un’attenta interpretazione del contesto e degli interlocutori, ma il dato di partenza resta che ciò che gli imputati dicono, se captato in modo regolare, può fondare una sentenza di condanna. È il principio fissato a suo tempo dalle Sezioni Unite nella sentenza “Sebbar”.

Sul piano più generale, la Cassazione chiarisce anche come leggere la nozione di partecipazione a un’associazione mafiosa. Non occorre, spiegano i giudici, che l’imputato compia direttamente reati-fine. È sufficiente la “messa a disposizione” stabile del proprio ruolo al sodalizio, la collocazione nei rapporti gerarchici con gli affiliati certi, la disponibilità a sostenere l’organizzazione. Sono elementi che, messi insieme, valgono a dimostrare la partecipazione. Quanto agli esiti concreti, i ricorsi sono stati rigettati quasi integralmente. Solo per alcuni imputati la Suprema Corte ha disposto l’annullamento con rinvio su parti limitate delle condanne.