La “campagna mediatica” contro l'allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo era un tarocco.

L’ex presidente dell'Anm Luca Palamara e l’ex pm romano Stefano Rocco Fava, ora giudice a Latina, sono stati assolti ieri a Perugia “per non aver commesso il fatto” dall’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio finalizzata, come detto, a screditare i vertici dell’ufficio inquirente della Capitale.

Tutto ebbe inizio all’indomani della pubblicazione a maggio del 2019 sul Fatto Quotidiano e sulla Verità di due articoli in cui si evidenziavano dei possibili conflitti d’interesse a carico di Pignatone e Ielo.

Secondo l’accusa, ad aver fornito le “carte” ai giornalisti sarebbe stato Fava su indicazione dello stesso Palamara. Gli articoli, in particolare, riguardavano un procedimento penale aperto nei confronti dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara. Nei confronti di quest’ultimo Fava, all’epoca pm presso il dipartimento reati contro la Pa di Roma, aveva richiesto la custodia cautelare in carcere, poi non vistata dal procuratore Pignatone.

Palamara, rientrato a piazzale Clodio dopo aver terminato a settembre del 2018 l’incarico di consigliere del Csm, avrebbe quindi “istigato” Fava a presentare un esposto a Palazzo Bachelet dove si evidenziavano alcune mancate astensioni del procuratore e dell’aggiunto in diversi procedimenti penali.

Scopo dell’esposto, sempre secondo l’accusa, quello di consumare una “vendetta” nei loro confronti. Ielo, ad esempio, doveva essere danneggiato in quanto aveva trasmesso alla procura di Perugia il fascicolo con i rapporti che Palamara aveva avuto con il faccendiere Fabrizio Centofanti e che gli avevano provocato l’accusa di corruzione (da cui era stato poi assolto, ndr), impedendogli così di poter concorrere per uno dei posti disponibili di aggiunto a Roma.

Durante il dibattimento i giornalisti, pur potendosi avvalere del segreto professionale, avevano negato che le loro fonti fossero i due ex pm. Anzi, uno dei due affermò di non aver mai conosciuto Fava e di aver visto Palamara per la prima volta il giorno che era uscito il pezzo.

Il procedimento di Perugia si è dunque concluso con la sola condanna di Fava a cinque mesi di reclusione per accesso abusivo a banca dati. Rispetto a Palamara, Fava era infatti accusato di essersi abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap della procura di Roma per acquisire atti riservati. Una condotta che secondo i pm umbri sarebbe avvenuta “per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita”.

Accusa respinta dall’ex pm che ha sempre affermato di essersi solo premurato di verificare le circostanze conosciute nell’esercizio delle sue funzioni, «per potere presentare una denuncia e sottoporre alla valutazione degli organi competenti fatti veri e documentati, nel convincimento della loro possibile rilevanza penale e della doverosità di un loro approfondimento nelle giuste sedi».

L’esposto in questione, per notizia, era stato poi archiviato a distanza di anni dal Csm senza alcuna attività istruttoria. Mandato in soffitta questo procedimento, resta da capire chi fu invece l’autore della fuga di notizie dell’indagine nei confronti di Palamara con la pubblicazione, ad intercettazioni in corso, delle conversazione effettuate con il trojan inserito nel suo cellulare e che poi terremotarono il Csm con le dimissioni di ben sei consiglieri e del pg della Cassazione Riccardo Fuzio.

«Questa sentenza certifica che non ho mai voluto il male della magistratura e che non ho mai tramato contro nessun magistrato», ha commentato Palamara. «Lo avevo raccontato al direttore Alessandro Sallusti nella immediatezza dei fatti: chi conosce il mio onore e la mia storia professionale lo ha sempre saputo», ha aggiunto l’ex pm, sottolineando che «continuerà nella ricerca della verità per capire chi e perché il 29 maggio del 2019 pubblicò quegli articoli con l’evidente intento di impedire che Marcello Viola potesse essere nominato procuratore di Roma».