Sette anni dopo l’inizio dell’unico processo sul quale i partiti di centrodestra contavano per provare il mai dimostrato legame tra Ong e trafficanti, la procura di Trapani ha chiesto il non luogo a procedere nel processo contro i quattro membri dell’equipaggio della Iuventa e contro gli esponenti di Save the Children e Medici Senza Frontiere, nonché il dissequestro della nave, riconoscendo, di fatto, l’insussistenza delle prove.

Una decisione che fa crollare definitivamente la propaganda sui “taxi del mare”, con le Ong trasformate in propaggini delle organizzazioni criminali che lucrano sulla pelle dei disperati in cerca di salvezza. Il governo, che ha chiesto di costituirsi parte civile, ha scelto di rimettersi alla decisione del Tribunale. Che dovrà ora analizzare la memoria nella quale la procura ha ammesso la mancanza di credibilità dei principali testimoni, ex agenti di polizia infiltrati sulla nave, la cui attendibilità «appariva seriamente messa in dubbio dalla loro spasmodica ricerca di un referente politico interessato alle politiche sulla immigrazione che potesse raccogliere e utilizzare i loro dubbi sulla legittimità dell’operato delle Ong nel mar Mediterraneo» e anche «dal loro tentativo di interfacciarsi addirittura con i servizi di sicurezza dell’Aise».

Sentiti in udienza preliminare - che ha contato un numero record di udienze -, gli ex agenti hanno però fatto un passo indietro, ridimensionando le accuse mosse contro le Ong e sottolineando «che quanto dagli stessi segnalato era da ricondurre alla loro ottica di personale di sicurezza, certamente divergente da quella del personale della Ong, proiettata unicamente al salvataggio di vite umane». Pietro Gallo, in particolare, «ha riferito che quanto messo a verbale nei locali della Questura di Trapani fosse sostanzialmente una sua deduzione, “un mio pensiero”». Insomma, le loro risposte avrebbero palesato «tutto il loro imbarazzo nel tentare di spiegare la ricerca di una sponda politica». E addirittura, dalle intercettazioni, emergerebbe anche il dubbio di una finta lite organizzata dagli ex agenti infiltrati «al fine di poter denunciare le opache modalità operative delle Ong, per poi spendere tale loro Iniziativa con un leader politico fortemente interessato alle politiche migratorie al fine di ricavarne un guadagno sotto forma di un posto di lavoro prestigioso e ben retribuito, tale da poter riscattare il loro allontanamento dalla Polizia di Stato».

È stato lo stesso Gallo, in definitiva, ad ammettere che gli uomini e le donne delle Ong «sono scesi in mare fondamentalmente per salvare delle persone e basta, poi di quello che c’era intorno a quelle persone a loro non gliene fregava niente, sicuramente era pure giusto così». E se è certo, afferma la procura, che le navi svolgevano una vera e propria attività di pattugliamento delle zone Sar di fronte alla Libia in attesa di imbarcazioni in difficoltà, «non può che sottolinearsi come dette imbarcazioni, una volta comunicata la loro presenza al centro di coordinamento, si siano strettamente attenute alle indicazioni ricevute» dalla Guardia costiera, anche facendo salire a bordo, su richiesta del Coordinamento centrale della Guardia costiere, più gente di quanta “autorizzata” dalla capacità di carico. «La deduzione investigativa di contatti intercorsi fra gli imputati e scafisti finalizzati alla “consegna concordata” di migranti - afferma la procura - non ha quindi trovato conferma nei molteplici dati acquisiti nel corso dell’udienza preliminare». Dai quali, di certo, non si può ricavare nessuna prova di un eventuale dolo, inizialmente contestato dai pm.

La procura ha respinto però con forza l’accusa di aver agito per ragioni politiche, sostenuta in aula da alcuni degli imputati, criticando l’eccessiva esposizione mediatica del processo e ricordando di aver acconsentito alla presenza in aula di “osservatori internazionali”, «come se ci trovassimo di fronte a un tribunale speciale pronto a dar vita a un processo di Norimberga». Un passaggio per ricordare che l’accusa ha «agito applicando scrupolosamente la legge, sin dalla fase delle indagini preliminari, come è stato riconosciuto dal ministro della Giustizia rispondendo alle innumerevoli interrogazioni parlamentari che paventavano la violazione dei diritti e guarentigie di indagati e difensori». Sette anni dopo, però, ciò che rimane è l’esistenza di «un grande dubbio (o addirittura non risulta per niente provato) circa la effettiva presenza di scafisti che abbiano accompagnato i migranti e poi fatto rientro verso le coste libiche».

La scarsa credibilità degli infiltrati era stata più volte evidenziata dalle difese in fase di indagine, ma è stato necessario attendere sette anni prima di confermarlo. «Prendiamo atto che la procura non ha inteso proseguire diabolicamente un’accusa radicalmente infondata - affermano gli avvocati Alessandro Gamberini, Francesca Cancellaro e Nicola Canestrini -. Dunque non ha inteso perseverare nell’errore. Ma ha cercato di farlo attribuendo alle 34 udienze nella quali si è svolta la preliminare l’esclusivo merito di aver chiarito le posizioni degli imputati che sarebbero stati in buona fede e dunque non andrebbero puniti. In tal modo si utilizza la mancanza di dolo come una foglia di fico per coprire un’omissione di indagine rispetto ad una vicenda nella quale fin dall’origine c’erano tutti gli elementi per archiviare la loro posizione perché i fatti erano radicalmente inconsistenti.

La prova si fondava su dichiarazioni di soggetti squalificati che avevano operato valutazioni deformate frutto strumentale del desiderio di accreditarsi presso i protagonisti politici, da Salvini alla Meloni, che sui fenomeni di immigrazione fondavano il loro successo politico. Così come la procura non ha mai compiuto verifiche elementari che avrebbero documentato che tutto si svolgeva sotto il controllo della Guardia Costiera. Era radicalmente insussistente la pretesa che vi fosse qualsiasi accordo con i trafficanti di esseri umani. L’unico scopo della condotta posta in essere ai giovani della Iuventa era quello di salvare vite. Una tempestiva archiviazione avrebbe evitato una sofferenza che per otto anni ha costretto questi giovani ad essere prima indagati e poi imputati in un procedimento penale per un reato gravissimo».

Ma non solo. Durante l’udienza, una volta diffusa la notizia della richiesta della procura, la Digos è entrata in Camera di consiglio - quindi nel corso di un’udienza a porte chiuse - per chiedere notizie e per sapere se la decisione del processo verrà presa sabato 2 marzo, come riportato da alcune testate. La Corte ha dunque informato i poliziotti che l’udienza non è pubblica. «Mi chiedo: chi li ha inviati? E perché?», ha scritto sul suo profilo X l’avvocato Canestrini. Un gesto che sembra confermare la natura non solo giudiziaria del processo, che a dicembre 2022 aveva anche registrato una “blindatura” delle udienze, proprio perché, avevano spiegato le forze dell’ordine presidiando il Tribunale, si tratta di un «processo politico». Tant’è che a chiedere di costituirsi parte civile non è stato, come da prassi, solo il ministero dell’Interno, ma anche la presidenza del Consiglio dei ministri. Secondo cui il governo, stando alla richiesta di costituzione, avrebbe subito un danno morale, economico e di immagine.

Nella richiesta, però, le difese avevano trovato riferimenti a reati mai contestati, tanto da spingere gli avvocati a minacciare una controquerela per diffamazione. Da qui le scuse dell’avvocatura dello Stato, che aveva dunque acconsentito di espungere alcuni passaggi. La vicenda si è però contraddistinta anche per altre stranezze, a partire dalle intercettazione di avvocati e giornalisti e dalla violazione del diritto di difesa degli imputati, a causa della mancata traduzione degli atti e dall’inadeguatezza degli interpreti messi a disposizione. Un’inadeguatezza certificata anche dal perito nominato dal Tribunale, che dopo aver esaminato i video dei tre interrogatori ha concluso che gli interpreti forniti dalle autorità di indagine non potevano ritenersi idonei, in quanto parti essenziali dell’interrogatorio non potevano essere comprese dall’imputato. Ora la palla passa al giudice.