PHOTO
C’è una barzelletta. Vecchia. Ma fa sempre ridere.
Il capo dei cow boy vuole preparare le scorte di legna per l’inverno. Proteggersi dal grande freddo: ecco la priorità. Ma non sa quanta legna davvero valga la pena di affannarsi a tagliare. Così, dopo aver ordinato ai suoi di cominciare a segare alberi, sale sulla collina, lì dove il grande capo indiano amministra l’orizzonte. Gli chiede: «Grande capo, ma quest’anno avremo un freddo normale o sarà proprio un inverno da congelarsi?». Il grande capo scruta la pianura. La scruta con attenzione. Poi dice con voce grave: «Sarà un inverno da congelarsi».
Questo due o tre volte a intervalli regolari di qualche settimana.
Quando manca poco a Natale, e fa un caldo boia, il capo dei cow boy risale per l’ennesima volta sulla collina e un po’ spazientito chiede: «Scusa grande capo, qui si muore di caldo, ma tu come fai a dire che sarà un inverno da congelarsi?». E il grande capo, dopo aver scrutato ben bene l’orizzonte, replica: «E io che ne so? Vedo tutta sta gente che spacca la legna...».
Quasi mezzo articolo se n’è andato con la barzelletta, d’accordo. Ma è per dare conto dell’incredibile paradosso messo in atto, per l’ennesimo anno consecutivo, da Transparency international, l’agenzia indipendente (indipendente, di sicuro, dalle statistiche oggettive) che ogni 12 mesi scaraventa il Belpaese nei bassifondi del ranking sulla corruzione (ranking sublimato nell’acronimo “Cpi”). In base a quali elementi? Non ci crederete: sulla base delle interviste. Proprio come il capo indiano che affida la sua grande lungimiranza di aruspice meteorologico alla propensione altrui: se segano, sta a vedere che è perché farà un freddo cane.
Ieri la scena si è ripetuta con il tradizionale, sussiegoso copione. Secondo il canovaccio che vuole l’Italia nazione infetta, anzi corrotta, corrottissima. Assai più sporcacciona di gran parte delle democrazie occidentali (siamo 42esimi con 56 punti, abbiamo pure perso una posizione in classifica). A motivare questa spietata bocciatura, inflitta da Transparency Italia alla presenza, ovvio, del vertice dell’Anac Giuseppe Busia, è l’impietosa, inesorabile, inconfutabile (secondo l’agenzia con sede a Berlino) opinione degli intervistati.
Siamo quasi esausti nel ripetere quanto Il Dubbio ricorda, dapprima con entusiastica convinzione, poi con desolata rassegnazione, dall’ 8 aprile 2018, data in cui questo giornale pubblicò la prima di una serie di interviste a Gian Maria Fara, in cui il presidente dell’Eurispes ha inutilmente spiegato che in Italia la corruzione è percepita dai cittadini come onnipresente proprio in virtù del poderoso apparato, investigativo e giudiziario, allestito per contrastarla, laddove in altri Paesi, dove spesso i pm sono alle dipendenze del governo, ben ci si guarda, tanto per dire, dallo spulciare nelle relazioni fra i monopolisti dell’energia e i governi africani che assicurano munifiche commesse.
Va detto che a metà dicembre il guardasigilli italiano Carlo Nordio – assistito dall’esperto Giovanni Tartaglia Polcini, che è anche consulente Eurispes – aveva ottenuto, alla Conferenza anticorruzione dell’Onu, il via libera a una risoluzione che prevede di sollecitare le agenzie come Transparency ad affidarsi a elementi più robusti delle semplici interviste, e a uscire dalla sindrome del capo indiano. Ma era troppo tardi: la Ong era già intenta a osservare i cow boy che spaccavano la legna. E nulla l’avrebbe fermata dal sentenziare che pure quest’anno, per l’Italia, sarebbe stato un inverno da lupi.