LA CRISI CON CONTE

Bastone e carota. È questo il registro che Mario Draghi sceglie di utilizzare nella conferenza stampa del day after. Un giorno dopo la rissa a distanza col presidente del M5S Giuseppe Conte, il premier prova a spegnere ogni polemica, giurando di non aver mai chiesto a Beppe Grillo la testa del fu “avvocato del popolo”. Sarà stato il colloquio mattutino con il Capo dello Stato Sergio Mattarella, sarà stata la voglia di gettarsi in fretta alle spalle una diatriba che lo appassiona poco, ma di fatto il presidente del Consiglio sceglie senza troppo trasporto la via della conciliazione.

A «Senza il Movimento non esiste il governo» La carezza minacciosa di Draghi a Conte

L’ex Bce prova a chiudere la polemica coi 5S ma avverte: «Non ci sono altre maggioranze... »

Bastone e carota. È questo il registro che Mario Draghi sceglie di utilizzare nella conferenza stampa del day after. Un giorno dopo la rissa a distanza col presidente del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, il premier prova a spegnere ogni polemica, giurando di non aver mai chiesto a Beppe Grillo la testa del fu “avvocato del popolo”. Sarà stato il colloquio mattutino col capo dello Stato, Sergio Mattarella, sarà stata la voglia di gettarsi in fretta alle spalle una diatriba che lo appassiona poco, ma di fatto il capo del governo sceglie senza troppo trasporto la via della conciliazione. «Non ho mai fatto queste dichiarazioni», dice Draghi, smentendo con troppe ore di ritardo le rivelazioni del sociologo Domenico De Masi al Fatto quotidiano. «Mi dicono che ci sono riscontri oggettivi ( della richiesta di rimozione di Conte, ndr): vediamoli, li aspetto», è la sfida del presidente del Consiglio, che poi assicura: «Non ho mai neanche pensato di entrare nelle questioni interne di un partito».

Tutto chiarito, dunque, la maggioranza può continuare a lavorare insieme ai grillini, sottolinea Draghi. Perché il governo è nato con i cinquestelle e non può esistere «senza» il contributo «importante» del Movimento, così importante da non potersi accontentare «dell’appoggio esterno», aggiunge l’inquilino di Palazzo Chigi. Del resto, è l’ultima carezza del premier indirizzata ai pentastellati, la sensibilità di Beppe Grillo «ha influito tantissimo sulla vocazione ambientale del governo, con le tematiche ambientaliste e della transizione ecologica» . Le “carote” però terminano qui, anche perché questa polemica non è che poi interessi così tanto gli «italiani». E quando Draghi passa al “bastone” lo fa senza foga, col consueto stile british. Bastano poche parole per capire l’avvertimento.

Questo è l’ultimo governo da qui alla fine della legislatura con «lei premier?», gli chiedono in conferenza stampa. «Sì», risponde secco l’ex presidente dalla Bce, escludendo anche qualsiasi rimpasto. «Non sono disposto a guidare un governo con un’altra maggioranza», chiosa. Tradotto: in caso di crisi di governo si torna dritti al voto. È un monito ai partiti più riottosi, al M5S, ovviamente, ma anche alla Lega. E sembra quasi una manovra a “tenaglia” pianificata col segretario del Pd Enrico Letta, che poco prima aveva detto in direzione nazionale: «Appoggi esterni, partiti che passano all’opposizione, tutto questo sancirebbe probabilmente, perché sta sempre al Presidente della Repubblica assumere iniziative e decisioni, la fine anticipata della legislatura». E dell’alleanza del Movimento col Partito democratico, sembra essere il “metamessaggio” dell’inventore del campo largo.

Perché se l’uscita dalla maggioranza potrebbe non spaventare Conte, il ritorno alle urne senza il paracadute dell’alleanza con i dem terrorizza il leader 5S. Con i consensi in picchiata e senza il tempo necessario a risalire la china bombardando sul governo, il Movimento finirebbe per bruciarsi col cerino in mano. Ed è questa l’unica ragione che finora ha convinto l’avvocato a tenere a bada la voglia crescente di “rottura” che attraversa il suo partito.

Aumenta ogni giorno, infatti, il numero di deputati e senatori in pressing sul leader per dare il benservito a Draghi. Persino ministri e sottosegretari cominciano a spingere in quella direzione. Perché con la scissione «di Palazzo» di Luigi Di Maio il potere contrattuale pentastellato ha subito un ulteriore ridimensionamento. «Non penso che il premier» voglia «far uscire una delle forze della sua maggioranza dal governo, non penso proprio sia così», dice il ministro dell’Agricoltura, Stefano Patuanelli, in queste ore parecchio critico col presidente del Consiglio. «Di certo non è un governo che può reggersi sulle scissioni, le fibrillazioni di questi giorni hanno come padre e madre la scissione fatta da Di Maio, non l’atteggiamento del M5S, che è stato sempre iper responsabile», aggiunge il ministro, evitando con cura di stemperare le tensioni.

Conte, stretto tra due fuochi per ora prende tempo. Ma l’incidente parlamentare è sempre dietro l’angolo. L’annuncio dello stop al superbonus al 110 per cento, l’inceneritore di Roma ( su cui il potrebbe mettere la fiducia) e i continui attacchi al reddito di cittadinanza potrebbero essere la miccia che fa detonare il carrozzone pentastellato. E a quel punto tutti gli attori in campo sarebbero costretti a giocare a carte scoperte.