GIULIANO CAZZOLA

Professor Cazzola, crede che l’addio di Calenda al centrosinistra possa togliere qualche voto al centrodestra o sarà ricordato come il più clamoroso degli autogol?

È presto per rispondere a questa domanda. Bisogna vedere che cosa farà Calenda nei prossimi giorni. Se decollerà un polo liberaldemocratico intorno all’agenda Draghi o se Calenda vorrà farsi del male correndo da solo. È in queste ore, sulla base delle scelte che farà che potremo capire se ha della stoffa da vero leader o se è solo come fu definito “un Ercolino sempre in piedi”. Un polo centrista che metta insieme Azione, Iv e la lista Pizzarotti e che, senza fare troppe storie, sia disposto a valorizzare gli ex di Forza Italia ( ricordiamolo: nel patto del 2 agosto con Letta li aveva esclusi dalle candidature nell’uninominale) è in grado di togliere voti al centrodestra ovvero a Berlusconi e ai cespugli di Toti, Lupi, Cesa e compagni. Comunque considero giusta la scelta di ritirarsi dall’accordo con Letta. Calenda era convinto di aver messo in trappola il Pd; invece era finito in trappola lui perché l’accordo permetteva a Letta di allargare la coalizione alla sua sinistra.

Il centrosinistra si presenterà con un’alleanza spostata a sinistra, ma con il Pd forte perno centrale, forse oltre il 25 per cento. Pensa che questo potrà dare nuova linfa a un partito che governa da dieci anni e sembra lacerato da polemiche interne?

L’attuale gruppo dirigente del Pd, a partire da Enrico Letta, ha il destino già segnato, a meno che non avvenga un miracolo nello spoglio delle schede il 25 settembre. Letta aveva davanti a sé due strade e due esempi da imitare. La prima era quella dell’Unione con cui Prodi vinse le elezioni nel 2006; ovvero una coalizione tenuta insieme perché tutti sono “contro” all’alleanza avversaria. Certo non era facile mettere in campo uno schieramento da Cln, che in caso di vittoria non sarebbe riuscito a governare. Ma seguendo questa logica era necessario imbarcare anche il M5S, perché non ha senso agitare per Conte e i suoi la “pregiudiziale draghiana” ed imbarcare nello stesso tempo Nicola Fratoianni che, a sua difesa nell’ostilità al governo Draghi, può solo invocare il fatto di essere una forza politiche che in Parlamento non contava nulla. La seconda opzione, che sembrava presente nell’intesa con Calenda, era quella della “vocazione maggioritaria” che consentì a Walter Veltroni, nel 2008, di rendere onorevole una sconfitta elettorale pressoché certa e comunque di liquidare le formazioni alla sinistra dei dem che avevano reso la vita difficile a Prodi. Il Pd, salvo per l’exploit di Renzi alle europee, non ha mai più ottenuto un risultato paragonabile a quello, pur non vittorioso, conseguito sotto la direzione di Veltroni e attraverso la rottura con le formazioni alla sua sinistra. Letta ha pasticciato ambedue le opzioni.

Si va delineando l’alleanza tra Renzi e Calenda nel cosiddetto terzo polo. Su quali basi, penso alla giustizia e alla politica estera, pensa che questo schieramento debba puntare l’accento in campagna elettorale?

Deve essere sostenitore intransigente dell’agenda Draghi, senza timori e mediazioni. Basta fare un collage tra le comunicazioni del presidente del Consiglio del 17 febbraio 2021 e quelle del 20 luglio scorso. Grande fermezza in politica estera e per quanto riguarda le politiche sociali, una coalizione che difenda la riforma delle pensioni di Elsa Fornero, il jobs act, il decreto Poletti sul lavoro a termine; che assegni un’effettiva priorità alle politiche attive del lavoro, anziché all’assistenza, riveda per quanto necessario il reddito di cittadinanza, rifletta sul salario minimo senza cercare scorciatoie. Una coalizione che, nel perseguire la cosiddetta transizione ecologica, tenga conto in primo luogo dell’esigenza di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, che chieda di realizzare i termovalorizzatori dove è necessario, di ospitare, come problema di sicurezza nazionale, i rigassificatori, di utilizzare al meglio, a colpi di trivella, le nostre fonti energetiche. In sostanza, una forza politica che dia rappresentanza ad una parte consistente della classe dirigente, urbana e cosmopolita e che si rassegni al fatto che la mitica classe operaia si sia orientata a destra; che non soffra del complesso delle Ztl e non abbia nostalgia per le periferie.

Intanto il centrodestra si è portato avanti con programma e candidature: crede che Lega Forza Italia e Fratelli d’Italia riusciranno a trovare un terreno comune per governare o verranno fuori le differenze esistenti, ad esempio quelle sugli aiuti militari all’Ucraina?

Giorgia Meloni ha capito che nel nuovo quadro geopolitico occorre fornire delle garanzie agli alleati e alla Ue. Certo che è un po’ triste avere come garante la leader di FdI. Soprattutto perché la situazione è in movimento; non è detto che le posizioni restino le stesse. Basti pensare a quale potrebbe essere lo scenario internazionale nel caso di un successo dei repubblicani di fede trumpiana alle elezioni di novembre.

Nel frattempo il governo Draghi continua il suo lavoro, che durerà anche dopo il voto se non ci sarà una vittoria netta di uno dei due schieramenti: quanto perderà l’Italia senza Draghi visti i risultati in economia?

Per ora al governo è consentita una gestione degli affari correnti molto ampia. Il centrodestra si illude di riuscire a fare un governo al più presto. Il nuovo Parlamento si riunirà a metà ottobre. Draghi ha la possibilità di tenere il più possibile la barra in una direzione che, nella misura del possibile e del consentito, non si interrompano ma si implementino i vincoli connessi al Pnrr.