Impazza in tv e sui giornali, anche quelli più insospettabili, l’intervista su La7 di Massimo Giletti al gelataio Salvatore Baiardo, nella quale quest’ultimo – ben due mesi prima - parla di un Matteo Messina Denaro gravemente malato che a breve avrebbe deciso di consegnarsi alle autorità per fare un regalo al governo Meloni. E così passa l’idea di un boss che si sacrifica per trascorrere la vita rimanente, forse breve, al 41 bis. In cambio di cosa? Non si comprende bene, ma sembra passare l’idea che lo abbia fatto per far scarcerare i fratelli Graviano (cosa, tra l’altro, che possono fare solo i giudici di sorveglianza) o per l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Ed è sotto agli occhi di tutti che questo governo l’ha abolito. Sì, come no. Con una riforma che – usando le parole del giudice di sorveglianza Marco Puglia in una bellissima intervista di Donatella Stasio su La Stampa - «sembra aver chiuso la porta aperta dalla Corte costituzionale alla speranza».

Seguendo questa suggestione, l’indicibile patto tra lo Stato (quindi Ros, procura di Palermo, governo, barbe finte etc) e la mafia, è talmente raffinato e segreto che viene rivelato in anticipo tramite un talk show, un po’ trash, in prima serata. E soprattutto tramite un gelataio considerato già inattendibile, perché puntualmente messo al vaglio dai pm ogni volta che sparava “rivelazioni” tramite trasmissioni come Report. Ma qui si aprirebbe un grosso capitolo su come certa informazione in prima serata rischia di “intossicare” e “suggestionare” i pentiti stessi come abbiamo già rivelato su Il Dubbio.

Ma chi è Salvatore Baiardo? Si deve a Report, due anni fa, la sua riapparizione. Hanno in pratica riesumato il gelataio di Omegna che ospitò i fratelli Graviano, boss stragisti del rione Brancaccio. Tra i vari racconti ha sostenuto ai microfoni della trasmissione di Rai3 che sarebbero in giro diverse copie dell’agenda rosse di Borsellino. Sarebbero state fatte più fotocopie e date in mano a chi ha ancora le chiavi del ricatto allo Stato tre decenni dopo le stragi. Tra loro anche Matteo Messina Denaro.

Eppure sarebbe il caso di dire che su Baiardo, in passato, si è già indagato quando disse ai carabinieri di essere pronto a collaborare ma chiedeva soldi, tanti soldi, in cambio. Le sue informazioni, però, furono bollate dagli investigatori come “del tutto inattendibili”. Persino il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido è stato costretto a smentire la sciocchezza di Baiardo sulla cattura di Messina Denaro. Ma non basta. I giornali, i social e le immaginette virali, hanno oramai rimbambito l’opinione pubblica. Il danno è stato fatto. D’altronde, da anni, grazie anche a taluni magistrati, ora alcuni di loro in pensione, siamo alle “scie chimiche” applicate al fenomeno mafioso.

Come mai ci sono voluti trent’anni per arrestare Matteo Messina Denaro? La mafia è territoriale, il suo feudo lo proteggeva grazie a una vasta rete di fiancheggiatori, talpe (i soldi permettono ciò), sicuramente anche politici locali (basti pensare all’ex senatore di Forza Italia Antonio D’Alì, all’epoca presidente della provincia di Trapani, il “feudo” di Messina Denaro) e il suo impero economico come il business dell’eolico. E infatti, in questi lunghi anni, diverse operazioni giudiziarie hanno colpito pesantemente la sua ricchezza, depotenziandone la protezione. Ma in questi anni sono stati commessi anche degli errori. Non dai Ros, ma dalla direzione della procura di Palermo dell’epoca. Basti pensare che nel 2012 si sono registrate polemiche tra i vertici della Procura di Palermo. A rivelarlo in una intervista alla trasmissione KlausCondicio è stata Teresa Principato, all’epoca procuratore aggiunto del capoluogo siciliano che da anni coordina le investigazioni sulla cattura. «L'indagine – aveva aggiunto Principato – è stata compromessa dalla dirigenza della procura e non dal Ros. Detto questo non voglio mettere in discussione le decisioni del procuratore. La scelta della dirigenza della Procura di Palermo di stoppare le indagini mi ha molto amareggiata». E non era stato l’unico incidente di percorso.

Che Matteo Messina Denaro avesse il proprio covo nel suo feudo non dovrebbe meravigliare nessuno. Tutti i boss, a partire da Totò Riina, non se ne sono mai andati dal proprio territorio. Anche Bernardo Provenzano viveva tranquillamente rintanato nel suo casolare di campagna. E riuscì a essere latinante per ben 43 anni. Anche lui non negò la propria identità e si complimentò stringendo la mano agli uomini che gli hanno messo le manette. Matteo Messina Denaro, da come emerge dai video amatoriali, ha tentato invece la fuga. Subito riacciuffato nel vicolo dove c’era il fiancheggiatore ad aspettarlo con l’auto. Tutte le congetture che si diranno in prima serata è puro intrattenimento. Come disse Falcone in un articolo del 28 settembre del 1991 de La Stampa, «ma la mafia non è spettacolo».